Marmi, stucchi, scalinate imponenti e una facciata
decisamente palladiana: la nuova sede di Haunch of Venison in Burlington
Gardens, in quelli che un tempo erano i locali del Museum of Mankind, sembra
più adatta a ospitare Lord Burlington che un tempio dell’arte contemporanea.
Mossa azzardata o coraggiosa che sia, questa di Haunch of
Venison è un vero e proprio schiaffo alla recessione. Ma la galleria londinese
è abituata a stupire. E se dal febbraio 2007 è divenuta la prima galleria
privata posseduta da una casa d’aste, Christie’s, ora è anche la prima ad
abitare gli spazi di un museo.
Alla perpetua ricerca di nuovi talenti da consacrare al
firmamento contemporaneo, Haunch of Venison London presenta
Raised Hide, la prima personale di
Uwe
Wittwer (Zurigo,
1954). Ma Wittwer non è un novellino. Già presente fra gli artisti di
Mythologies, lo show che della galleria
londinese ha inaugurato sia la nuova sede che la stagione artistica, e
associato a Haunch of Venison Zürich, Wittwer è un artista eclettico dallo
stile essenziale, un autodidatta che ha scambiato un lavoro di assistente
sociale per la carriera artistica.
Con questo nuovo gruppo di opere – fotografie manipolate
digitalmente, acquerelli e inchiostri acquerellati su carta a grana grossa –
incastonate come pietre preziose nelle pareti candide di quattro sale dai
soffitti alti, l’artista svizzero continua la sua instancabile indagine
sull’unicità dell’immagine e sulla natura dell’arte.
Affascinato da immagini d’ogni tipo, Wittwer predilige
tuttavia soggetti tradizionali come paesaggi, città, nature morte e ritratti. E
attraverso cartoline, dipinti o foto scaricate da internet, esplora temi cari
alla nostra epoca, come l’originalità e l’autenticità dell’immagine. Non a
caso, molto del materiale da cui Wittwer attinge per la sua riflessione su
quella che Walter Benjamin aveva definito l’
aura, è radicato nella storia
dell’arte.
Dettagli isolati – una collana o una crinolina, un fiore o
un candelabro – allargati, ingranditi, sfumati, spesso resi al negativo, sono
espressi con un vocabolario pittorico essenziale, evocativo, quasi rituale.
Nella seconda sala,
The Class of Beauty è un’installazione di grandi
dimensioni che evoca una classe scolastica e in cui vetrine dedicate a iconici
artisti del passato (più o meno recente) sostituiscono i banchi. Alle pareti,
1939 e
1945, due acquerelli di grandi
dimensioni basati su foto di gruppo scolastiche di quegli stessi anni,
conferiscono all’atmosfera un tono di malinconica dolcezza.
Nel solco dell’Appropriation Art
, Wittwer si appropria del lavoro
dei maestri del passato – da
Ruisdael a
Friedrich, da
Poussin a
Warhol, per citarne alcuni – e, riproducendolo come proprio,
crea una situazione inedita, donando un nuovo significato (o molteplici
significati) a un’immagine già nota. Il risultato è sorprendente: basta
guardare i tre monumentali trittici basati sulle immagini eterne delle tre
versioni de
La battaglia di San Romano di
Paolo Uccello,
che concludono il percorso
espositivo e che nelle sue mani si trasformano in un’imponente riflessione
sulla crudeltà della guerra.
C’è molto da contemplare nel lavoro di Witter. Ma l’opera
dello svizzero non è solo profonda filosofia. E in
Am Fenster negativ, morbido acquerello ispirato a un
fotogramma de
La finestra sul cortile di
Hitchcock, emerge la sua capacità di lanciarsi in un delicato
commento sul
voyeurismo, imbevuto di un umorismo sottile quanto inaspettato. Un umorismo che
infonde leggerezza e ironia in quella che sarebbe potuta diventare una pesante
meditazione filosofica sull’immagine e sul ruolo della memoria.