Si sussurrava, prima del vernissage, che a dare il benvenuto ai visitatori di questo evento artistico collettivo sul concetto allargato di scultura fosse una recentissima opera “americana” dell’artista veneziana -o berlinese?- Monica Bonvicini (1965). Luogo dell’evento un centralissimo palazzo tardo barocco dove ha sede la T-B A21, la fondazione promotrice. Superato l’ingresso dell’edificio, una radiazione luminosa a tratti intermittente, proveniente dal cortiletto interno, incuriosiva e invogliava a dare un’occhiata. Eccola, l’opera della Bonvicini, appesa in alto: un’insegna a grafìa cubitale percorsa da lampadine bianche per un effetto da luna park. Un metro per quattro. NOTFORYOU. Altro che benvenuto, piuttosto un urlo insolente, tutto d’un fiato. Seduzione e repulsione serviti sullo stesso piatto. È indubbiamente efficace questa sarcastica allusione al mondo dell’arte mediante le subdole strutture di esclusione in auge nel contesto sociale.
Meno coinvolgente, sia pure concettualmente simile, è il lavoro di Andreas Siekmann (Germania, 1961) collocato su un piedistallo lungo il percorso del primo piano. Qui una variopinta giostra giocattolo dal titolo L’Esclusivo-il quarto potere sviluppa un carosello che denuncia l’esistenza di un occulto potere situato altrove.
Dunque, giocattoli come paradigma del ready-made; più d’un artista lavora su un dispositivo di creatività derivato dal regresso all’immaginario infantile. Empire Vampire III di Isa Genzken (1948, Germania) è un assemblaggio fatto di soldatini e oggetti qualsiasi che si regge su un precario equilibrio a sviluppo verticale ispirato più dalla fantasia di un bimbo che dalla razionalità e dalla fisica del mondo reale. Fiona Banner (1966, Gran Bretagna), lasciando pendere dal soffitto tanti aeroplanini-giocattolo militari, utilizza ancora mezzi infantili per evocare un mondo altamente conflittuale.
Sospesa tra sogno, scultura e architettura, Gate, l’opera di Do-Ho Suh (1962, Sud Corea) -già vista in Italia- è l’apparizione eterea di un arco orientale realizzato in un trasparente velo color celestino: evoca poeticamente un lontano luogo delle origini. Non solo gioco e sogno però, anche turbamento e incubo. Ad esempio, Jim Lambie (1964, Scozia) con Status Quo ci mostra una realtà fatta di oggetti resi ormai alieni dopo una strana metamorfosi strutturale.
Oltre al manichino feticcio di Sarah Lucas (1962, Gran Bretagna), un richiamo alla statuaria dalle sembianze umane è dato, in modo singolarissimo, da una composizione del binomio Michael Elmgreen & Ingar Dragset (1961,
Se arte e tecnica sono connesse fin dall’origine, Jeppe Hein (1974, Danimarca) ne sintetizza tutto il senso in un’impeccabile anamorfosi concepita in forma di enigmatica sfera in acciaio cromato dal diametro di 50 cm, che vaga autonomamente e ‘motuproprio’ sul pavimento. Anche Jan Mancuska (1972, Slovacchia), con Killer Without a Cause, propone un apparato tecnico che però produce solo frustrazione. Al buio di una saletta due enormi proiettori da 35mm, rivolti l’uno contro l’altro, sbobinano e riavvolgono rumorosamente la medesima pellicola; mentre si ascolta il dialogo dei protagonisti l’immagine filmica rimane intrappolata. Il percorso in forma di sculptural discourses prosegue ancora con Carsten Nicolai, Olaf Nicolai, Heimo Zobernig, Ernesto Neto, Jorge Pardo, Ai Weiwei, Chen Qiulin, Gerwald Rockenschaub, Eva Rothschild, Rachel Selekman, Davide Balula.
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franco veremondi
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