Franco Vaccari (Modena, 1936) non rinuncia a mettere nello stesso spazio diverse figure contemporaneamente, soggetti che, come in un campo di linee, si riprendono tra loro e, a volte, in corrispondenza biunivoca, risultano sovrapponibili. Volutamente uguali, ma solo in matrice. Sottraendo in chi guarda la rigidità dello stupore. Rimane dunque il pericolo latente dell’introduzione ripetitiva di una storia, quella che la sagoma del personaggio portava con sé al momento dello scatto. E il dubbio che sorge in chi osserva porta a chiedersi se le figure, esposte simultaneamente, non siano altro che un espediente senza ripetizione. Un trucco che faccia ricadere pesantemente, mollemente il materiale visivo, nel calco della scena cava di una fotografia narrativa.
Ma se si ha la fortuna di poter compiere un’attenta carrellata dei diversi scalini, di quei balzi ideativi che hanno accompagnato le fasi dei diversi “reportage” di Vaccari, ci si eleva da ogni tipo di discorso distorto sulla loro prima apparenza e appartenenza. Gli scatti in esposizione sono, infatti, racconti che vibrano e risuonano come corpi senza nome, schiacciati dall’obiettivo e messi a significare, a meditare su loro stessi. La fotografia, allora, diventa un diagramma che unisce la sensazione alla storia, passando attraverso differenti livelli dei
registri scopici; quelli sui quali vengono esercitate precise azioni di forza e di conquista per divaricare lo spazio d’azione stesso.
In occasione di quest’esposizione ticinese è stata compiuta dai curatori un’accurata e raffinata operazione filologica che sottende, come una rete sottile, a ogni lavoro in mostra. Duecentodieci immagini in bianco e nero e a colori, insieme alla proiezione di nove video, ripercorrono la linea temporale di tre libri e di tre opere che Vaccari ha continuato a sovrapporre e a riformulare tra il 1955 e il 2007. Attraverso sistemi stranianti di coppie e trittici, il percorso espositivo comincia, al pianterreno, a specchiarsi attraverso
Radici, una lunga serie di paesaggi in bianco e nero che ritraggono contraddizioni e mode tra il 1955 e il 1968.
Poi la mostra, divisa da uno spartiacque, torna a proporre le più note opere concettuali come
La città vista a livello di cane o i paesaggi irreali dei lavori intitolati
Esposizioni in tempo reale. Progetti nei quali la performance del fotografo stringe con più precisione il laccio che l’ha tenuto legato alla scena dell’arte fino a oggi, agli ultimi lavori del 2007.
Vaccari che guarda a se stesso, come di fronte alle pareti specchianti di Bar-Bar, torna così a testimoniare, con un pizzico di voluta e volubile autoreferenzialità. Spiegando senza svelare troppo come la fotografia non sia un mezzo né un fine, ma una causa attivatrice. Un motore che allude e provoca l’ingranaggio mai smosso della
sensazione di realtà.