Wainer Vaccari (Modena, 1949) espone a Los Angeles, negli spazi della galleria Bonelli Contemporary, il suo ultimo ciclo di lavori, ispirati al pugilato.
La serie è il frutto di un accumulo di tensione e passione, di anni di ricerca, durante i quali nell’autore è cresciuta la convinzione circa l’importanza di riflettere su ciò che significa la solitudine drammatica di un pugile, l’esaltazione e il valore simbolico di un combattimento, il suo essere il riflesso di destini individuali così come di drammi del corporale.
Non stupisce, visto che Vaccari pratica da tempo una pittura “realistica”, fatta di carne e dolore. Una pittura il cui attivante fabbrile s’intrude ogni volta in un’ossessione classica, capace di pensare ancora “
il combattimento come una delle belle arti”, come scriveva Walter Pater. È oggi cosa lontana, un pensiero dimenticato, si sa. Pure l’artista tenta, nonostante ciò, il recupero. Vaccari tenta la reinvenzione, servendosi d’una pratica altrettanto classica come lo è la volontà che lo ispira: la pittura pura. Quella pittura fatta, prima d’ogni altra cosa, di forma e colore.
Quest’ultimo ciclo prosegue quello esposto alla Kunsthaus di Amburgo nel 2005. Ma, mentre lì tutto era teso alla restituzione ieratica dei volti mitici del pugilato, qui tutto si scompone diluendosi, nel tentativo di restituire la dinamicità dell’azione.
In definitiva, e al di là di quanto detto, citare Arthur Cravan è il miglior commento all’opera e a questa mostra di Vaccari: “
Sento che l’arte, come il misterioso stato di forma di un lottatore, ha la sua sede nel ventre piuttosto che nel cervello, e questo perché mi esaspero quando sono davanti a una tela e vedo, mentre penso all’uomo, drizzarsi soltanto una testa. Dove sono le gambe, la milza e il fegato? La pittura è camminare, correre, bere, mangiare, dormire e fare i bisogni”.