Dopo aver dedicato due serie fotografiche al rapporto tra il corpo e la luce, con esiti brillanti sia nella trasformazione del corpo in paesaggio, che nella trasfigurazione della carne in esile e misteriosa scrittura, il fotografo savonese approda a questa recente serie, dedicata alle femmes d’or. Sono ritratti senza volto di donne immerse nell’oro e trasformate in bagliori e riverberi di uno sguardo classicista, pulito, tagliente e rigoroso, che accoglie il gesto come sfumatura psicologica e la posa come impostazione drammatica di una narrazione senza trama. Il tentativo è quello di realizzare un approccio diverso alla fotografia: più materiale, oggettuale. Per questo il fotografo sceglie una libreria antica di Arles, in pieno festival della fotografia, come sede innaturale in cui installare le sue danae danzanti, intrappolate dentro il “piccolo formato” e incastonate in larghe e lussureggianti cornici barocche dorate. In questa selva di carte antiche, casa di una cultura che non esiste più, tra rovine e frammenti letterari alla deriva, la fotografia contemporanea di Delfino si mimetizza assumendo le fattezze di un oggetto barocco da wunderkammer: voluttuoso e drammatico.
I corpi e lo sfondo che li ospita sono un’unica tessitura di luce alimentata da pulsazioni omogenee; la pelle su cui cade la colata d’oro s’indurisce fino a trasformare la donna in statua. Delfino chiosa il testo di una storia della fotografia, che da Man Ray sfiora Helmut Newton e approda a Robert Mapplethorpe, ritraendo le sue femmes d’or come altrettanti trattati sulla luce. Il sottile dialogo tra le masse, la plasticità dei volumi corporei e l’armonia delle forme seguono Mapplethorpe fin dove l’americano rispetta i canoni classici della bellezza. Come il Michelangelo di New York, dove Delfino si mostra sensibile al fascino eterno della scultura muscolare.
Ma il corpo possiede per lui anche una valenza spirituale e culturale; è il baluardo ultimo di una resistenza all’invasione del corpo pubblicitario e velinico, ammiccante e ambiguo, falsamente erotico e finalizzato allo stimolo del consumo generalizzato. Anche del proprio consumo. La fotografia di Delfino non solletica, non ammicca. Non può perché non ha sguardo, non ha volto. Le sue donne si offrono alla contemplazione. Nelle composte pose neoclassiche, nella danza che sviluppa geometrie inedite o nelle contorsioni di un espressionismo acefalo, il corpo della modella diventa geroglifico, simbolo di qualcosa di extracorporeo. Tra queste forme assunte dai corpi, vi sono anche le illustrazioni di una possibile danza pagana che la modella improvvisa e che l’artista coglie sulle pieghe di un infinito gioco tra le arti di lei e il cliccante mantra di lui.
Spesso accade che i nudi fotografici non siano nudi, ma vengano in-vestiti delle proiezioni di un inconscio collettivo maschile che innescano infiniti giochi di finzione, scambi di ruolo, pervertimenti dell’amore e ritardi del soddisfacimento sessuale. Quello ritratto da Delfino è un corpo femminile e basta: capace di delicatezze estreme, curve giottesche, fragilità superiori, morbide immobilità, nodosità arboree, radici piantate nella carne e direttrici che convergono verso il centro del mondo. Un mondo che sta oltre l’eros.
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angelo americi
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