Per contraddistinguere le location di questa Biennale, che ruota intorno al complesso di quartieri denominato Beyoglu, il gruppo A12 è intervenuto con un bel rosa shocking, segnalando ogni volta in maniera diversa le facciate o i tragitti da seguire. E siamo già alla prima metà della partecipazione italiana.
Come si è scritto su Exibart.onpaper 25, la pittura è l’assente notevole. Rappresentata per di più da lavori non entusiasmanti, con Silke Otto-Knapp e Lukas Duwenhögger. Quest’ultimo a stretto contatto con i tappeti creati per l’occasione da Paulina Olowska. Interessante invece l’intervento fra pittura e installazione allestito da Chris Johanson, artista della West Coast con un celato retroterra graffitista, mentre resta al 100% in ambito street Dan Perjovschi. Assai meno stimolante il mega-allestimento del gruppo Irwin, con un’infilata ottocentesca di quadri realizzati in varie tecniche, che miscelano simboli religiosi e politici.
Merita un maggior spazio l’artista di Pristina Jakup Ferri, che ha scelto di allestire i propri video in varie sedi. Con un’ironia sommessa e a tratti imbarazzante, ha messo di fronte alla videocamera la sua famiglia per ringraziare i curatori; ha cercato di inserirsi in una performance vocale di John Lennon e Yoko Ono; ha presentato il proprio portfolio a visitatori che magari non erano gli interlocutori appropriati; e infine ha omaggiato il concettualista croato Mladen Stilinovic parlando un improbabile inglese.
A dominare incontrastata dal punto di vista tematico è indubbiamente la politica, dalle modalità più dirette e “interventiste” a quelle maggiormente striscianti e virali. In questo concetto allargato di impegno si possono inserire anche i video di Phil Collins, che riflette su reality show e karaoke, in quest’ultimo caso con risultati piuttosto esilaranti. (Un fascino per le star del mondo musicale condiviso da Jon Mikel Euba, che però ha un approccio assai più formale.) Oppure le t-shirt pop del gruppo indonesiano Ruangrupa, dove la barba di Bin Laden si accosta ai capelli di Einstein.
Il welfare maniacale del Nordeuropa è ossessivamente fotografata dal video di Johanna Billing, mentre il quasi trentenne norvegese Gardar Eide Einarsson ha piazzato in cima a un palazzo la scritta luminosa che cita Tony Montana, The World Is Yours. Ricordando come finisce Scarface, l’intento sarcastico è lapalissiano. Dal sogno americano alla Berlino post-muro, per l’indagine socio-urbanistica condotta da Axel John Wieder e Jesko Fezer, concretizzata in un intervento molto composito, costituito da riviste specializzate in libera consultazione, alcune installazioni e pannelli descrittivi.
Interessi urbanistici ribaditi anche dall’inchiesta su centro e periferia condotta da Solmez Shahbazi, dal video e dalle fotografie di Hala Elkoussy, dall’animazione di Tintin Wulia, nonché dal lavoro psicogeografico del gruppo coreano Flying City. Mentre si torna agli ex “satelliti” sovietici nel lavoro di Johanna Billing realizzato a Zagabria, in quello di Alexander Ugay elaborato nel sud del Kazakistan o in quello di David Maljkovic, dedicato all’ormai desolato monumento jugoslavo ai caduti della Seconda guerra mondiale. Risale anch’esso alla Seconda guerra lo strumento per segnalazioni aeree che Cerith Wyn Evans ha preso in prestito per lanciare poesie al cielo in codice Morse. Ancora legati all’immaginario del cinema sovietico i tre video in 16mm girati dai giovani Alexander Ugay e Roman Maskalev, rispettivamente classe 1978 e 1977.
Accanto al noto video New York Groove, Daniel Guzman, ha proposto Happiness. Provocatorio, anche valutando la realtà in cui viene presentato, il video a tratti erotico di Hatice Güleryüz, accompagnato dal libro d’artista intitolato Strange Intimacies. Altrettanto forte nell’ambito culturale turco risulta il video di Wael Shawky, nel quale l’artista recita ossessivamente sure del Corano in un supermercato. Travagliata la vicenda di Maria Eichhorn, che per giorni ha dovuto lottare con l’amministrazione locale per riuscire ad avere il permesso di affissione nella centralissima piazza Taksim, dove infine sono comparsi annunci a carattere sociale di ogni sorta. Tutta dedicata a Unabomber, figura che “politica” era certamente, l’installazione e il dvd di Ola Pehrson.
Assai presente il problema del conflitto israelo-palestinese. A partire dal centanario Museo di Storia naturale portato a Istanbul da Khalil Rabah (visto qualche mese fa in Italia, al nuovo Arcos di Benevento), deliziosa celebrazione dell’albero di ulivo. Yaron Leshem ha presentato una grande light-box che ritrae un simulacro di villaggio palestinese utilizzato dall’esercito israeliano per il training, oltre a un video che critica con grande cognizione di causa il giornalismo di guerra embedded (così come fa Sean Snyder, anch’egli con fotografie e video). Con una installazione multimediale, Yochai Avrahami mette a parte i visitatori dei minibus con funzione di taxi che affollano Israele e Palestina, mentre Smadar Dreyfus è andato a filmare la spiaggia di Tel Aviv e Ahlam Shibli ha fotografato il villaggio di beduini ‘Arab al-N’aim. E Yael Bartana ha seguito con la propria camera un gruppo di teenager che hanno inventato un gioco dal nome eloquente, “l’evacuazione della colonia di Gilad”.
In stretto contatto col discorso politico anche molti interventi che hanno sfruttato appieno l’ambiente cittadino o anche solamente la specifica location assegnata in Biennale. Dal disponibilissimo Servet Koçigit, che ha riunito in un appartamento diversi lavori precendenti, da uno scopettone automatizzato a un frigorifero vuoto che sprofonda nell’impiantito. Un simile coinvolgimento con gli appartamenti dismessi ha mostrato Nedko Solakov, con una installazione che passava quasi inosservata –come previsto dall’artista- per essere surclassata dai mini-nterventi scritti sui muri. Lo stesso Solakov ha poi ospitato Sarah Ayoub Agha, giovane studentessa incontrata alla Biennale di Sharjah e che chiaramente colà non ha vita facile dal punto di vista dei diritti civili.
Come si diceva, il legame con la città non è mancato, grazie anche alle molte residenze in loco offerte a parecchi degli artisti presso Platform Garanti. Così Michael Blum ha ricostruito la casa di Safiye Behar, ebrea, marxista e femminista del primo Novecento che fa tornare alla mente una cinica battura di Woody Allen. La giovane Pilvi Takala (Helsinki, 1981) ha girato due video, indagando la realtà dei caffé frequentati dagli uomini turchi: dapprima portandovi sé stessa e altre tre donne e fimando le reazioni degli abitué; poi tentando di “switchare” due omonimi dai rispettivi locali. (A proposito di veri machi, estremamente divertente il video che presenta l’Eau d’Ernest, per chi vuole assomigliare in toto al grande barbudos Hemingway.)
È intervenuto a spezzare la routine della commerciale Istiklal caddesi Halil Altindere, inscenando e filmando azioni assolutamente fuori contesto, come una coppia di businessmen che si danno alla break dance o un’altra coppia che elegge la strada a ring per un allenamento di boxe. Allo stesso modo, Ahmet Ogüt (nato nel 1981) ha camuffato due automibili private –senza che gli ignari proprietari ne sapessero nulla- da taxi o macchina della polizia. Piuttosto insapore la serie di fotografie stampate al laser su carta da Gardar Eide Einarsson, i cui soggetti sono angoli anonimi della capitale. Mentre ha dell’incredibile la conoscenza della metropoli che ha acquisito Erik Göngrich, sostanziata in mostra da una complessa installazione, in particolare con una spassosa cartina-wall painting. Al capo opposto Sener Ozmen, che nella sua una guida della città confessa di aver cominciato a scrivere senza esserci mai stato!
Frutto di una residenza nell’antica Costantinopoli anche il film di Mario Rizzi, intitolato Murat and Ismail; e per restare in ambito quasi italiano, il giovane di Lugano Luca Frei ha lavorato in collaborazione con alcuni street artists, realizzando un intervento composito e labirintico composto appunto da graffiti, tavole specchianti e muri in cartongesso, disponendo in 3D il libro d’artista dell’Oda Projesi. Tornando ai lavori legati strettamente alla capitale turca, Hüseyin Alptekin ha rimodellato la gigantesca quadriga che veneziana non è, provenendo originariamente dall’Ippodromo di Sultanahmet, da dove fu trafugata nel 1204 dai Crociati. (È andata peggio per il tentativo di Serkan Ozkaya di portare una copia del David a Istanbul: si è autodistrutta durante l’allestimento…) E per venire agli interventi sul corpo della città, Pawel Althamer ha proiettato una Luna su un cartellone publicitario posto in cima al decano Pera Marmara Hotel; Otto Berchem ha fatto rinascere l’alfabeto proto-graffitista degli Hobo, poveri migranti statunitensi a cavallo fra XIX e XX secolo; e Karl-Heinz Klopf ha reso protagonisti alcuni scalini della zona di Beyoglu con spot da cinematografo.
Se fossero consentite un paio di scelte su tutte: l’installazione di Pavel Büchler, che ha disseminato il sottotetto di un edificio del quartiere di Galata con altoparlanti d’antan che diffondevano citazioni dal Castello di Kafka; e quella di Y.Z. Kami, che ripercorre la realtà di Konya in connessione col misticismo sufi.
Per concludere, la città dove era meglio pubblicizzata la Biennale di Istanbul è stata Copenhagen. Grazie a Superflex e a Jens Haaning, che hanno tappezzato i muri danesi con mille cartelloni.
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