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fino al 30.XI.2008 | Yokohama Triennale 2008 | Yokohama, sedi varie

di - 23 Novembre 2008
Time Crevasse è un enunciato che in italiano si traduce con una certa ambiguità. Letteralmente significa crepaccio, rottura. Si tratta di un qualcosa che, mentre si rompe, esplode, perde la sua forma consueta per acquistarne un’altra. Precaria e che reca le cicatrici del danno avvenuto. È probabile che l’idea che aveva in mente Tsutomu Mizusawa, direttore artistico della terza edizione della triennale di Yokohama organizzata dalla Japan Foundation, fosse più ampia, volendo alludere sia all’esplosione che all’implosione del tempo. Sostiene infatti Mizusawa che “la nostra società dell’informatica ci fa vivere un tempo sempre più tiranno perché standardizzato, che però, paradossalmente, non converge in una linearità, ma da cui si originano invece scismi e divisioni che rendono la nostra esistenza sempre più frammentata”.
Di per sé, forse, non è una visione particolarmente originale. Molto sentita, invece, è la capacità positivamente aggressiva che Misuzawa riconosce all’arte, che non nasce dalla coscienza del disagio e dalle collisioni che il tempo frammentato può creare. Secondo lui il tempo che implode ed esplode crea degli “abissi” ed è qui che nasce l’arte, “quando agiamo in maniera creativa le differenze individuali e sociali, di nazionalità, di genere e di generazioni, etniche, religiose e tutte quelle in cui ci troviamo abitualmente a vivere”, spiega. Per mettere in scena un’arte come “energia sconfinata che scuote le nostre percezioni quotidiane”, in grado quindi di sovvertire quel tempo omologato e frammentato insieme, Mizusawa ha puntato molto sulla performance, come linguaggio in grado di aggredire il tempo-tutto-uguale e di crearne un altro.
Coerente, quindi, è lo sforzo di questa Triennale, che si avvale di tre luoghi espositivi con le relative mostre, di scommettere su un fitto calendario di performance fino al 30 novembre, giorno di chiusura. E lo è, coerente, anche in riferimento all’arte contemporanea giapponese che non brilla per particolare vivacità, ma che vanta una “tradizione” di performance e improvvisazione: Gutai, Fluxus e Yoko Ono per esempio, ma anche alcuni outsider come Tanaka Min e Nakaya Fujico.
Gli artisti invitati dai cinque curatori – Daniel Birnbaum, Hans Ulrich Obrist, Hu Fang, Akiko Miyake e Beatrix Ruf – sono perlopiù performer che incrociano generazioni diverse. Tra gli altri, Joan Jonas, Marina Abramovic, Tino Sehgal, Jorge Macchi, Hermann Nitsch, Yoko Ono, Terence Koh, Jonathan Meese, Mathias Poledna, Stephen Prina, Cameron Jamie, Sharon Hayes e John Armeleder. In un parterre di così notevole qualità è presente un solo italiano, Michelangelo Pistoletto, al quale è stata affidata l’apertura della Triennale con una performance che si annunciava molto attraente: la rottura di grandi specchi accuratamente incorniciati e appesi in un ambiente molto spazioso, che però, non onorando Pistoletto l’invito, è stata realizzata da Lorenzo Fiaschi, tra i suoi galleristi italiani (è uno dei tre fondatori della Continua di San Gimignano). Gesto che Fiaschi ha interpretato con passione, salutato positivamente dai curatori, lasciando perplesso qualche partecipante: che senso ha una performance senza il performer, oltretutto trattandosi dell’unico artista italiano presente e quasi miracolosamente invitato a un appuntamento internazionale? Forse la globalizzazione del mondo dell’arte, che quasi regala ai curatori il dono dell’ubiquità (Birnbaum, oltre a esser nel team di questa triennale, è direttore di T2 di Torino e della prossima Biennale di Venezia), non produce lo stesso mirabolante effetto sugli artisti.
Polemiche a parte, la Triennale è un gran bel momento d’arte. Le sedi, specie lo Shinko Pier appena restaurato, sono adeguate alle opere e alle installazioni ospitate. Che non interferiscono tra loro, ma anzi finalmente respirano in ambienti idonei che restituiscono all’arte la piena dignità. L’obiettivo del direttore e dei curatori appare centrato: attraversando gli spazi delle tre sedi, oltre lo Shinko Pier, il Red Brick warehouse, vecchio deposito portuale destinato oggi a uso commerciale, il Waterfront warehouse (Yokohama è una delle più importanti città sul mare del Giappone) e gli splendidi giardini Sankeien (una pausa di tradizione in una modernità rumorosamente invadente) si percepisce un’inedita apertura spazio-temporale: subentra un tempo diverso che rimette in moto il cervello, oltre la sensibilità. E non è merito solo di quella rottura della consuetudine che la performance riesce a provocare, perché, a parte qualcuna cui raramente si riesce ad assistere, come quella di Jorge Macchi e Edgardo Rudnitziky, realizzata all’interno di un tempio dei Giardini Sankeien e accompagnata da una musica soavissima, o il seducente teatro della crudeltà messo in piedi da Teshigawara Saburo, dove una danzatrice si muove in una sala totalmente tappezzata di vetri rotti, altre si sono già viste, come il “bacio” rallentatissimo di Sehgal, presentato alla Biennale di Berlino del 2006, o “Joan Jonas che legge Dante”.
È piuttosto la scelta degli artisti e una selezione convincente delle opere a fare la qualità di questa Triennale. Dai grandi come Paul McCarthy, che presenta un esilarante e trashissimo video sui pirati, Douglas Gordon con i suoi animali, Fischli & Weiss, Paul Chan e le sue Lights, Elmgreen & Dragset, Matthew Barney, Philippe Parreno, fino ai più giovani: l’indiana Shilpa Gupta, che porta una bellissima fotografia e una curiosa installazione, la cinese Cao Fei, gli inglesi Payne & Ralph, che presentano un video intensamente lento, Mark Leckey, che tramite la fotografia ragiona con intelligenza sul ruolo della scultura nello spazio pubblico, la tedesca Ulla von Brandenburg, autrice di conturbanti e quasi poveriste videoinstallazioni che conosceremo meglio nella T2 di Torino.
Non è da dimenticare poi lo sforzo fatto per mettere insieme una sezione che documenta quanto la tradizione della performance sia radicata in Giappone: un intero piano del Red Brick warehouse è occupato da video che risalgono agli anni ‘60 e che testimoniano quella che forse è la vera anima dell’arte contemporanea giapponese. Un mondo che recentemente sembra essersi fermato, messo in ombra a Oriente dal boom dell’arte cinese e a Occidente dall’affermarsi di codici linguistici verso i quali il Paese del Sol Levante sembra non avere il reagente giusto. Impasse che non riesce a recuperare nonostante i tentativi di far rientrare la sua scena artistica nel circuito internazionale, come si è visto nella seconda edizione di ShContemporary. La quale, come ha chiarito il suo ideatore Lorenzo Rudolph, “vuole far vedere all’Asia e al mondo che cosa succede in questo Continente, a partire dai suoi artisti migliori”.
Ma il gap forse si spiega con il fatto che Cina e India sono Paesi in espansione, “con una borghesia in crescita, ricca, istruita e che viaggia”, aggiunge Rudolph. Mentre il Giappone è in una fase di declino come la vecchia Europa.

adriana polveroni
mostra visitata il 13-14 settembre 2008

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 53. Te l’eri perso? Abbonati!


dal 13 settembre al 30 novembre 2008
Yokohama Triennale 2008 – Time crevasse
Sedi varie – Yokohama
Orario: tutti i giorni ore 10-18
Ingresso: intero ¥ 1800; ridotto ¥ 1300/700
Info: tel. +81 354058686; pr@yokohamatriennale.jp; www.yokohamatriennale.jp

[exibart]

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