Il consiglio, a chi abbia la sorte di passare per Madrid, è di non perdere la mostra che la Fundación Mapfre dedica a
Max Ernst (Brühl, 1891 – Parigi, 1976), presentando la novella grafica
Une semaine de bonté. La visita, in effetti, rappresenta un’occasione rara per studiare da vicino una delle opere più significative del Surrealismo, a lungo estranea ai circuiti espositivi internazionali e finalmente riproposta in versione integrale a 73 anni dalla sua prima esposizione, avvenuta proprio a Madrid.
Realizzata nel 1933 in vista di un’ambiziosa operazione editoriale,
Une semaine de bonté costituisce senza dubbio il capolavoro di Ernst in campo grafico. Si tratta di una sequenza di 184 collage del tutto privi di elementi testuali, realizzati a partire dalle illustrazioni xilografiche di alcuni feuilletton del secolo XIX – storie di delitti truculenti e amorose passioni, per lo più d’ambientazione vittoriana – che l’artista impiega come sostrato per condurre un’operazione di fantasmagorico sovvertimento dei codici narrativi al tempo correnti e, più sottilmente, affermare una critica feroce delle strutture politico-sociali vigenti: in primo luogo la chiesa cattolica, sullo sfondo l’ideologia borghese e i suoi feticci.
Di fatto, nell’opera si susseguono le vicende di alcuni personaggi-tipo, recuperati iconograficamente da altre fonti e sovrapposti con una tecnica di collage certosina, che rende difficile distinguere le giunture lungo un continuo, irrefrenabile
détournement immaginale.
È impossibile dare qui compiutamente conto della messe sterminata di mitologie e rimandi che animano la
Semaine, così come di sue più sotterranee ascendenze e connessioni artistiche (dal simbolismo visionario di un
Félicien Rops ai fotomontaggi del coevo, assai più dichiaratamente politico,
John Heartfield). Sotto il profilo organizzativo, in ogni caso, si può ricordare come il lavoro sia suddiviso in sette giornate distinte per elementi ideali – il fango, l’acqua, il fuoco, il sangue, il nero, la vista, lo sconosciuto – e colori delle copertine dei quaderni dell’edizione tipografica, secondo un ordine mantenuto nell’allestimento con pregevole intelligenza espositiva.
Quanto a intenti ed esiti artistici, la settimana di Ernst rappresenta un vero e proprio monumento alla convinzione dell’artista tedesco, per cui “
bisogna servirsi del banale per creare il fantastico”, inoculando fremiti d’inconscio in dozzinali storie d’appendice.
Al proposito, viene peraltro da considerare come, nonostante la debordante intensità iconologica dell’operazione, Ernst sia qui riuscito a raggiungere una costante misura espressiva, mantenendosi lontano da quell’“
onirokitsch” che l’acume di Walter Benjamin aveva precocemente scorto in molte operazioni del movimento surrealista. E a cui, in effetti, lo stesso Ernst non risulta alle volte alieno sul versante pittorico.