È necessario precisare da subito che si parla di uno degli
eventi più attesi della stagione espositiva d’Occidente e forse non solo.
Questa preventiva puntualizzazione è indispensabile per comprendere quanto il
plauso che verrà rimarcato più volte nelle righe successive sia sentito e
motivato.
L’antologica che il MoMA dedica a
Marina Abramovic (Belgrado, 1946; vive a New York)
non è un semplice omaggio, seppur architettato in grande stile, né una mera
ricostruzione di una eccezionale carriera, tuttora in corso.
Procedendo per punti: il percorso è cronologico, ma
suddiviso in significative sottosezioni; l’allestimento è multimediale, ma
rispettoso dei tempi e dei modi di fruizione; la struttura è didattica, ma non
priva di approfondimenti e digressioni. Per concludere la pagella, vanno citati
gli egregi pannelli esplicativi che introducono i vari settori e la sala
dedicata alla “linea del tempo”, che vanta documenti originali (poster,
locandine, foto personali) e pagine diaristiche ricche di sentimento.
Le stanze accolgono un punto di vista plurimo che permette
di accostarsi al documento storico (il filmato di una performance, le foto
d’epoca) o di rivivere l’esperienza di alcuni dei più famosi interventi di
Marina Abramović, in assolo o in coppia con
Ulay.
Nessuna ritrosia nell’ammettere che poter attraversare i
due corpi nudi di
Imponderabilia (1977/2010) – famigerata azione ospitata la prima volta
presso la Gam di Bologna -, seppur nella riedizione interpretata dagli studenti
dell’artista slava, provoca una grande emozione sia all’appassionato che al
neofita. Così come ritrovare a puntello di ogni singola sala un’esecuzione live
che ripercorre il lungo cammino performativo dell’artista, da
Relation in
Time (1977/2010)
a
Luminosity (1997/2010),
da
Point of Contact (1980/2010) a
Nude with Skeleton (2002/2005/2010).
Gli oggetti-simbolo di quelle opere che, come si può
verificare sui manuali, sono già pagine “classiche” di storia dell’arte del
Novecento, vengono esposti come reliquie, ma non sono lontani, non sono
distanti. Il furgone che fece da casa viaggiante per la coppia Abramovic-Ulay
in
Art Vitale (1976),
le armi e gli strumenti a disposizione del pubblico in
Rhythm 21 (1974) o il groviglio di ossa
accatastate in
Balkan Baroque (1997).
La completezza dell’esposizione poi si coglie nella
presenza di pezzi poco visti come
Incision o
Charged Space (1978) e si assapora in operazioni efficaci come la
ricostruzione della struttura che ha ospitato
The House with the Ocean View (2002), accompagnata da una
descrizione sonora del vissuto.
In questo modo, tra performance ri-performate, le proprie
e quelle altrui, in
Seven Easy Pieces (2005), immagini storiche e precise didascalie, si arriva
là dove l’artista è presente e attende il visitatore.
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Preciso un piccolo refuso nel testo, la performance del 74 con gli strumenti messi a disposizione del pubblico e' Rhythm 0, eseguita dalla Abramović allo studio Morra di Napoli.
Grande e bellissima artista.