Immagini mentali che diventano realtà, forza plastica trasferita su superfici bidimensionali. Nel centenario della nascita di Jean Dubuffet il centre George Pompidou dedica una retrospettiva all’opera dell’artista scomparso 16 anni fa. Definito un “véritable realiste”, la sua arte non nasconde nulla e non si divide in fasi o in epoche successive : in Dubuffet i temi si ripropongono in modo alternato senza mostrare particolari preferenze per un genere o un soggetto. La materia è forse la vera protagonista delle sue opere. Lo spessore delle superfici, aggettante e irregolare, dona dimensione concreta all’esistenza. Si percorrono ventitré sale all’interno delle quali sono stati riuniti insieme tutti gli aspetti dell’opera di Dubuffet grazie a prestiti di vari musei americani, inglesi e collezioni private. Non una sola scritta accoglie il visitatore, ma soltanto i titoli delle opere ci accompagnano dall’inizio alla fine. Un po’ spaesati ci si addentra tra le sue creazioni che subito mostrano l’alternanza delle tematiche : dai ritratti agli animali, ai corpi nudi squadrati e colorati, superfici che trattate pittoricamente in modo consistente possiedono già i germi della materia pronta ad essere protagonista. La Jazz band è interpretata da sei musicisti dalle forme graffiate nello spessore di un nero che lascia emergere, dai solchi, colori accesissimi e musicali. La superficie acquista spessore grazie all’impiego di vari materiali impastati insieme al colore come sabbia, polvere e piccoli sassolini, sfruttati per la loro forma anche per dare immagine a certe anatomie. E’ un ritorno volontario al primario, non al primitivo, a quella che è stata definita art brut. Le “Hautes pâtes”, gruppo di 75 opere realizzate nel 1945-46, sono l’esempio di questo tipo di espressione. Base dei suoi ritratti dipinti esemplificano l’avversione di Dubuffet per la tradizione, una specie di rabbia personale che gli valse il titolo di anarchico. I suoi corpi si dilatano fino al limite della tela con arti spesso sproporzionati in modo da far pensare quasi ad animali marini come crostacei. Ma non immagini mostruose anzi, i visi sono spesso sorridenti e con sguardi vivi. Le sue sculture, dai materiali imprevedibili come spugne marine, lava, rottami di automobili o semplice legno, sono veramente emblematiche della sua capacità di dare uno spessore tridimensionale alle sue creazioni, con forme che si liberano nello spazio. In altri momenti della sua produzione la superficie della tela diventa protagonista: interamente rivestita di metallo dipinto, di foglie o di carta ci avviciniamo davvero all’aspetto primario dei materiali.
Dai primi anni sessanta intraprende un tipo di pittura figurante personaggi e forme fatte di alveoli delimitati di nero. E’ il ciclo di “hourloupe”, lavori per lo più in poliuretano espanso verniciato di bianco (e nero) con il quale da forma ad una “table porteuse d’instance e de projets” o a personaggi alti e corpulenti, che animano scenografie teatrali. Lo spettatore entra e partecipa alla sua arte (il Jardin d’hiver, costruito ed esposto nelle sale del museo d’arte moderna è veramente l’esempio di questa penetrazione). Nero, rosso, blu e bianco sono i colori che costruiscono i suoi spazi. E questi intrecci di linee, verso la fine della sua vita, acquistano velocità, forza e sicurezza. Siamo davvero entrati nel mondo di Dubuffet.
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Roberta Serra
mostra visitata il 15 settembre 2001
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