Quella di
Francis Bacon (Dublino, 1909 – Madrid, 1992) fu un’infanzia difficile. Omosessuale dichiarato in un Paese che solo pochi anni prima aveva condannato Oscar Wilde ai lavori forzati per oltraggio al pudore, per anni della vita privata di Bacon – inscindibile dall’estetica dei suoi dipinti- se n’è solo potuto sussurrare. Ora, alla vigilia del centenario della nascita, la Gran Bretagna riabilita questo figlio scomodo, dedicandogli una grande retrospettiva alla Tate Britain, la prima organizzata nel Regno Unito dal 1985. Con sessanta opere e dieci sale,
Francis Bacon è uno straordinario percorso emotivo, che si snoda cronologicamente fluido attraverso la convulsa vita di uno degli artisti più inquietanti del Novecento.
Stabilitosi a Londra nel ‘29 dopo aver vissuto a Berlino e a Parigi, Bacon tenta di farsi un nome come interior designer mentre si dedica – con scarso successo – alla pittura. Sono tempi difficili. Pochi dei suoi primi lavori sono sopravvissuti alla furia autocensoria che ha impietosamente investito le opere di questi anni. Miracolosamente resta la piccola
Crucifixion del 1933, esposta accanto ai grandi trittici successivi
Three studies for a Crucifixion (1962) e
Crucifixion (1965). Create in momenti cruciali della sua vita, le crocifissioni costituiscono il paradosso drammatico dell’universo di Bacon. Un universo dominato dall’assenza delle tradizionali figure dei santi e in cui la crocifissione – spogliata dal suo significato religioso – rappresenta la negazione stessa dell’umanità.
Affascinato dalle potenzialità della fotografia, Bacon ricorre spesso in fase preparatoria alla manipolazione d’immagini prese da quotidiani e fotogrammi di film. Ma non solo: ispirato dalle sequenze fotografiche di
Eadweard Muybridge, tra il 1950 e il 1961 si dedica a complessi esperimenti con lo spazio pittorico. Nascono così la famosa serie dei
Papi, ispirata al ritratto di
Innocenzo X di
Velázquez, e quella dei
Man in Blue I-VII, popolata da buie, anonime figure maschili immerse in un’atemporale solitudine “hopperiana”.
Ma il buio è destinato a finire presto. La scoperta della luce avviene alla fine degli anni ‘50 quando, durante alcuni viaggi in Francia, Bacon è folgorato dal colore puro e dalle pennellate convulse di
Vincent van Gogh e crea una serie di sei dipinti ispirati all’
Autoritratto sulla strada per Tarascona, tra cui
Study for Portrait of van Gogh IV (1957).
Ma è solo negli anni ’60 che l’interesse di Bacon si sposta sul ritratto. Pur mantendone la forma originale, Bacon sottopone la figura umana – animale tra gli animali – a grottesche distorsioni anatomiche. L’alto livello di violenza a cui l’artista sottopone l’immagine lo porta a ritrarre soggetti che conosce bene, come gli amici Isabel Rawsthorne e George Dyer, morto suicida nel 1971. Il dolore per la perdita del compagno è immenso: in
Triptych. In memory of George Dryer (1971), Bacon illude l’osservatore di poter entrare nel suo dramma personale, per poi escluderlo servendosi di una composizione semplice dal colore sobrio che, nobilitando il suo orrore privato, lo rende al tempo stesso asettico e inaccessibile a chi guarda.
Le forme sformate delle opere tarde come
Study of the Human Body (1982) e
Portrait of John Edwards (1988) contengono la stessa disperata energia e lo stesso costante confronto con la morte che ha accompagnato Bacon per tutta la sua carriera.
Triptich (1991) è il suo ultimo lavoro. Con il ritorno di Bacon ai temi chiave del suo percorso, il cerchio si chiude. E anche questa straordinaria mostra.