Sogno e trauma: due pilastri della dottrina di Sigmund Freud. Ma è anche vero che tutto il portato dell’inconscio freudiano ha un fondamento di natura artistica, tragica. Edipica, per intenderci. Ecco dunque una triangolazione perfetta e ben articolata. In altre parole, se alla base dell’esistenza soggettiva si situa il trauma quale lesione permanente della psiche, sia il sogno che l’arte si pongono come forme di “godimento”, ossia attività capaci di arginare il suo devastante potenziale. Tutta la dinamica della psiche si fonda su questo dispositivo: arginare il trauma. Sogno e opera d’arte non agiscono ovviamente sullo stesso piano: se il teatro del primo è l’inconscio dispiegato nel sonno, il teatro del secondo è pur sempre la veglia, uno stato coscienziale, interpretativo, decostruttivo in cui a reggere il gioco disinibito della sfrenatezza creativa è comunque un progetto guidato, ma non pienamente sotto controllo. E ancora, se il sogno è, freudianamente, l’irretimento-camuffamento del trauma attraverso determinati meccanismi, l’arte è, sempre in questo corpo-a-corpo con il trauma, la rinuncia a utilizzare i meccanismi tipicamente onirici; non per nulla Freud irrise il movimento surrealista, tutto volto alla rappresentazione simbolica dell’attività del sogno.
Osservata sotto i doverosi presupposti psicoanalitici, Traum & Trauma (Sogno & Trauma) è una mostra che non coglie del tutto nel segno: i due termini del titolo sembrano chiamare in causa l’arte quasi solo come mezzo di campionatura di stati psichici alterati o di effetti pulsionali incontrollati.
Il risultato è un’aporìa di fondo con la concitata intenzione di esibire forme di perversione e di angoscia. Automutilazioni, automasturbazioni, stati di allucinazione, oggetti in disordine o in disintegrazione, feticci, conflitti, frustrazioni. Solo la sezione conclusiva, con un percorso più lineare, attiva un’efficace dinamica del transfert, quanto basta a suscitare uno stato di smarrimento e a far intuire il trauma dietro un fittizio ordine di oggetti.
Qui nella penombra ci si imbatte in una presenza umana grottesca quanto scostante, senza fisionomia né identità essendo totalmente avvolta in una misera coperta di lana. È un’opera di Maurizio Cattelan (1960), unico italiano in un mazzo di ventotto artisti. Si transita poi a fianco di un’installazione di Olafur Eliasson (1967), che costruisce un ambiente irreale facendo brillare una pioggia d’acqua per mezzo di un bombardamento stroboscopico. Si accede infine nell’ultima sala, un lungo cul-de-sac in semioscurità. In questo spazio che pare disidratato giacciono due affastellamenti di ferraglie informi ma che tuttavia proiettano sulla parete l’assurdo desiderio di umanizzarsi, inscenando un virtuale espletamento di primarie funzioni fisiologiche firmato Tim Noble/Sue Webster (1966/1967).
Dopodichè, con l’installazione di Nari Ward (1963) ci si incammina tra vecchie carrozzine per bambini, legate, allineate, categorizzate da una parvenza sistematica, ma contaminate da una catastrofica sospensione del tempo. Per ultimi, i video di William Kentridge (1955) tornano a esibire l’umano ma visto sotto forma di organo da esplorare, una modalità di maltrattamento o forse la ricerca di un’identità-autenticità occultata.
Tra i nomi di questa collettiva spiccano anche Cindy Sherman, Kiki Smith, Paul McCarthy, Robert Gober, Urs Fischer, Jeff Koons, Chris Ofili e Nathalie Djurberg, con un ventaglio di opere di per sé anche notevoli, ma in larga parte non proprio recenti, tutte provenienti dalla ricca collezione Dakis Joannou di Atene.
franco veremondi
mostra visitata il 5 luglio 2007
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ma la vogliamo dire tutta? questa mostra è una schifezza, è proprio un trauma!