Che
Locus oculi sia una mostra sul tempo e sui tempi è annunciato dal
cortocircuito che accoglie il visitatore: la grande scultura metallica di
Bernhard
Rüdiger – qui
artista e curatore – si erge davanti alla fortezza che Claude d’Urfé, umanista
e diplomatico, trasforma in castello rinascimentale a partire dal 1535.
Petrolio (locus desertus) è un imponente traliccio che
espone ai colpi di vento tre pale eoliche dalle forme matematiche frattali, le
quali producono – ma solo irregolarmente – rintocchi gravi che valgono come
monito, allarme o captazione di forze telluriche, lontani dalla cadenza rituale
e codificata della campana. L’inarticolato allarme di
Petrolio si staglia sul “fondo”
dell’impianto umanistico della fortezza, un luogo ritirato ma deputato a
pensare il mondo e l’azione.
Lungi dall’essere mero décor antico per opere
contemporanee (come troppo spesso avviene), il castello attiva un reciproco
sguardo tra presente e passato; diviene
luogo dell’occhio, appunto. Attingendo liberamente
alle collezioni del museo d’arte moderna di Saint-Etienne e dell’Istituto
d’arte contemporanea di Villeurbanne, lo sguardo d’artista tesse un montaggio
tra opere di epoche differenti, seguendo il filo di una domanda: che cosa in
quel progetto umanista ancora ci ri-guarda? E quali forme ripensano oggi la sua
concezione del soggetto, del corpo, della natura?
La risposta si dà per cortocircuiti e collisioni visive.
L’Arcadia degli arazzi secenteschi e l’impianto razionale del grande giardino,
forme mentali dello spazio fisico, entrano in tensione con le foto di
August
Sander – alberi
che, in pieno conflitto mondiale, espongono le proprie radici in una terra
corrosa – ma anche con la gabbia-altalena di
Veit Stratmann, che sottopone il disegno
geometrico del giardino alla prova di oscillazione di un corpo reale.
E il corpo attraversa tutta l’esposizione: quello
armonioso del Rinascimento riappare oggi come corpo assente – nelle scarpe
abbandonate di
Walker Evans – o suggerito dal silenzio delle cose –
Composition
aux raisins di
Fernand
Léger – o
dissolto in uno spazio teso ed elettrico, come nei locali del
corpo di guardia pervasi dal ronzio
dell’
Arco voltaico di
Zorio.
Vi si dispiega una piccola storia della materia-corpo, con
il grande feltro di
Robert Morris, la turgida torsione in panno di
Giovanni Anselmo e, infine, il bacio dei
riflettori di
Ange Leccia, dispositivi tecnici che assumono una coloritura
affettiva con il semplice gesto che li appaia.
Un accenno, infine, al discorso sullo spazio intimo: nella
camera del castello il grande letto di Claude d’Urfé sembra mostrare il suo
rovescio mortifero, attivato dalle spettrali foto della serie
Famiglie
italiane, in cui
Patrick
Faigenbaum situa
corpi inermi negli spazi fuori misura delle antiche case patrizie. Il senso
appare, come in un bagliore, nel concreto montaggio tra gli oggetti.
Si dispiega così in forma visiva – ed è il pregio assoluto
di questo esperimento espositivo – un dibattito culturale ampio e decisivo nel
recente panorama francese: quello sulle temporalità complesse che attraversano
l’opera d’arte e la fanno capace di pensare la storia.