La prima grande personale europea dedicata a
Nancy Spero (Cleveland, 1926; vive a New York) permette di spaziare dalle opere create durante il periodo della sua formazione a quelle più recenti, di cui
Maypole: Take no Prisoners – una sorta di versione attuale dell’albero degli impiccati di
Callot e
Goya, presentata all’ultima Biennale di Venezia – costituisce un valido esempio. Immediatamente si coglie l’impegno etico e politico che segna la riflessione di questa portavoce dell’arte femminista, attraverso l’importanza che riveste nei suoi lavori il corpo femminile.
Nel 1959 l’artista approda a Parigi assieme al proprio compagno
Leon Golub, anch’egli pittore figurativo, allontanandosi dalla scena artistica newyorkese, dove impera l’espressionismo astratto, movimento monopolizzato da autori di sesso maschile. Nella capitale francese, alla ricerca di un linguaggio espressivo personale, Spero dipinge di notte e riversa nella serie dei
Black Paintings il duro sentimento di emarginazione nel quale si sente immersa: la difficoltà per una donna di affermarsi come artista.
Les Anges, Merd, Fuck You, del 1960, definisce questa condizione di isolamento.
Nell’anno dello scoppio della guerra in Vietnam la coppia torna, insieme ai tre figli, negli Stati Uniti. La sua posizione critica nei confronti del conflitto si traduce in un instancabile contributo di “manifesti”, nei quali le teste e i corpi straziati delle vittime volano in aria, mentre dalla loro bocca fuoriesce una lingua che è al contempo un fiotto di sangue. Questo tentativo di grido, castrato e destinato a rimanere inespresso, degno d’un incubo, rappresenta ora la realtà nella serie in mostra
War. Attorno, aerei, elicotteri, esplosioni di bombe che rimandano costantemente alla forma di un fallo in erezione e a un’eiaculazione, immagini che descrivono la guerra come violenza sessuale.
Ma è solamente negli anni ‘80 e ‘90 che si assiste al riconoscimento critico ufficiale dell’opera di Nancy Spero. A questo fertile periodo creativo appartengono lavori come
The First Language in cui, sparito il testo, il corpo e la libertà dello spazio bianco che lo circonda diventano protagonisti. Si tratta di un inventario disinvoltamente universale di figure femminili rinvenute nel grande libro della memoria, tra incisioni rupestri di grandi madri, divinità mitologiche, immagini di sportive nere alle Olimpiadi. Spero riproduce veri e propri
ex voto ricavati dall’iconografia della dea Artemide o ispirati fedelmente alle audaci danzatrici che decorano gli utensili dell’antica Grecia.
Caratteristica comune a tutte queste donne, scelte di volta in volta in posizioni acrobatiche, erotiche, di lotta, di danza, di liberazione, di affermazione è l’energia vitale che sprigionano, ovvero, secondo l’artista, “
l’utopia del possibile cambiamento”.
Artemide, pur sprovvista di arco, frecce e scudo, con la posizione del braccio simile a quella di Zeus quando si accinge a scagliare i suoi fulmini, condensa tutta la propria potenza nello sguardo, fissando di sottecchi il nemico, sicuramente già distratto dalla sua bocca sensuale. Memorabile Artemide, protettrice del parto e di
ogni animale selvatico.