L’arte contemporanea ha questo di peculiare: gode di una libertà che nessun’altra attività umana può permettersi di avere. Libertà nell’utilizzare strumenti espressivi e narrativi di proprio conio; libertà nel porre in evidenza le relazioni tra la sfera della vita quotidiana e le nostre risposte emotive. La sfera in cui nascono tutte le nostre curiosità cognitive, le quali dilatano l’orizzonte del quotidiano fino ad annettere alla conoscenza questioni sociali, storiche, etniche, etiche e così via.
Se, per esempio, il 9 marzo scorso il Tibet ha “celebrato” i cinquant’anni dell’insurrezione popolare contro l’opprimente presenza politica e militare della Cina nel suo territorio, e se questo ha comportato nella regione, secondo il Dalai Lama, centinaia di migliaia di vittime, portando “
l’inferno sulla terra”, è molto probabile che tutto corra il rischio di rimanere un dettaglio sfumato nel panorama della storia, se affidato a mezzi di comunicazione troppo omologhi agli standard delle news quotidiane. In questo come in altri casi, l’intervento dell’artista si presenta come inusuale punto di vista e come penetrante supplemento d’indagine. Ma, al tempo stesso, trasforma il concetto di arte visiva in strumento di conoscenza culturale, quindi di lotta per l’esistenza.
La mostra
A Question of Evidence tratta tematiche come la sottrazione delle identità culturali, la soppressione dei diritti umani, la restrizione della libertà d’espressione in alcune differenti realtà socio-politiche del continente asiatico. Lo fa proponendo una varietà di linguaggi e mezzi, in cui talvolta è l’ironia a dare scacco alla drammatica realtà dei fatti.
In posizione centrale c’è un’installazione-narrazione dell’artista indiano
Amar Kanwar, con 19 videoproiezioni simultanee su cartoncini sospesi a mezz’aria:
The Torn First Pages (2004) è basato sull’intervista a un libraio del Burma (ex Birmania) – Paese oppresso da una ventennale dittatura – imprigionato perché, dai libri che vendeva, strappava clandestinamente le prime pagine, quelle in cui il regime imponeva frasi di propaganda politica. Astuzia e clandestinità anche nell’installazione video di
Pak Sheung Chuen che, in
A Present to the Central Government (2005), racconta di messaggi criptati e celati dietro normali scambi di merce, riferendosi al passaggio di sovranità di Hong Kong alla Cina.
Il Tibet è nel mirino della “questione evidente”, come nei quattro autoritratti fotografici che compongono
My Identity (2003). Qui
Gonkar Gyatso si rappresenta come artista-trasformista, assumendo cioè differenti fisionomie e stili figurativi secondo le circostanze in cui si trova ad agire.
Al top della mostra, vale a dire nell’“incontaminato” sottotetto del palazzo barocco della fondazione, il sud-coreano
Do Ho Suh, col suo abituale ed etereo linguaggio poetico, sposta sull’intimità del ricordo il senso dell’autonomia dell’esistenza, ricostruendo site specific in questa sua permanenza viennese un angolo del proprio appartamento di New York.