Lentos ha fatto, e fa, parlare di sé. È il nome della nuova sede del museo d’arte contemporanea di Linz, ricca e famosa città danubiana. Lentos è un grande edificio dalla forma di parallelepipedo con epidermide di vetro, che dal tramonto all’alba cambia colore in continuazione. Ha la vocazione cromatica del camaleonte, ma non per mimetizzarsi, anzi tutto il contrario. In effetti anche le mostre che propone hanno la seduzione del richiamo impetuoso e un taglio particolarmente penetrante. Come quella in corso, per esempio: sfacciata, perturbante, provocatoria fino all’insostenibilità. È tutta così l’opera di Gottfried Helnweil (Vienna, 1948): le sue armi pittoriche sono fin troppo figurative, il suo linguaggio più che realistico, le sue trame sempre inquietanti. Face It, titolo della mostra, è una retrospettiva e una mostra tematica nello stesso tempo, dove il viso umano è soggetto e leitmotiv.
Agli esordi il lavoro di Helnwein si incentra su un’esposizione iperrealista della sofferenza fisica umana, che si manifesta attraverso dettagliate forme di corrosione dei tessuti carnosi o che si mostra palesemente come malformazione fisionomica. L’evoluzione del suo lavoro è marcatamente più impegnativa; il passaggio dai disegni a matita e a pastello alle tecniche miste che impegnano colori acrilici e ad olio e fotografia, e più tardi ancora l’elaborazione digitale, lo conducono ad una precisione rappresentativa molto caratterizzata, sublimata da un cambio di scala nella dimensione delle opere. Non più corpi corrosi e alterati, ma volti che esibiscono stati d’animo di indecifrabile inquietudine. A tu per tu con lo sguardo di quei ritratti ingigantiti il rapporto intersoggettivo con lo spettatore si fa asimmetrico. Essi sono ciò che io non sono. Sta in questa eccedenza l’essenza e la potenza del lavoro di Helnwein, un lavoro che lui costruisce sulla base di differenti strategie, tra cui anche l’impiego della propria presenza.
In una gigantografia alta tre metri (Fortunato, 1987) osa proporsi al pubblico con il capo fasciato da una grossa garza sanitaria trasudante un denso colore azzurro a significare il singolare patimento di cui l’artista, per sua natura e destino, deve farsi carico. Immancabilmente, l’eccesso dell’esibizione deborda i limiti della sopportabilità.
Il piacere del mascheramento è portato agli estremi negli smisurati ritratti dedicati a Marilyn Manson. E sorprendentemente, in questo gioco delle parti, lo sguardo diretto del musicista dall’aria maledetta tradisce una vena di malinconica riflessione. Così come turbamenti e angosce suscitano i puntigliosi grandi ritratti dei volti di fanciulli nella loro silenziosa e quasi apatica timidezza.
Coerente e divergente al tempo stesso è una grande tela in bianco e nero, come un veridico documento d’archivio. Epiphany (1996) rielabora un topos dell’iconografia artistica: è una strana “adorazione dei magi” in cui una Madonna e il suo Gesù ricevono la visita di ufficiali nazisti. Nella circolazione degli sguardi insorge l’agguato di uno dei personaggi che cerca di accertare visivamente la natura ariana o ebraica di quel Cristo bambino.
franco veremondi
mostra visitata il 15 aprile 2006
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Finally a great artist, and a great painter! This "Epiphany" is absolutely contemporary masterwork. What a delight!!!
L.S.