Lascia a casa il glamour a tutti i costi; il suo è un lavoro sull’identità che concentra l’obiettivo su oggetti del desiderio per eccellenza: le star. Stiamo parlando di
Anton Corbijn (Strijen, 1955; vive a Londra e Los Angeles), artista di origine olandese che ha fatto del suo rapporto con il mondo della musica e del cinema una preziosa cifra, nel 2007 messa all’attenzione delle cronache mondane e non per la regia del film
Control, lungometraggio dedicato al mitico seppur sfortunato cantante dei Joy Division, Ian Curtis.
Corbijn sembra avere un radar per le stelle, e la personale che gli dedica il Ludwig Museum di Budapest lo dimostra. Nel black box scorrono senza sosta i videoclip che l’artista ha realizzato con band del rango dei Nirvana (
Heart Shaped Box, 1993), degli stessi Joy Division (
Atmosphere, 1988), degli U2 (
One, 1992) e, naturalmente, con i Depeche Mode, con i quali ha instaurato un rapporto speciale.
Nelle immagini in video, le identità dei gruppi e della canzone raccontati si confondono con quella dell’artista:
Enjoy the Silence dei Depeche Mode è un elogio alla contemplazione, a quell’attitudine a guardare l’infinito, appresa dall’artista in famiglia, grazie agli insegnamenti del padre, pastore protestante. Il processo d’identificazione ritorna, con un sapore nostalgico, nella serie fotografica
A. Somebody (2000-02), per la quale Corbijn progetta una serie di autoscatti nei panni di famosi musicisti scomparsi. Eccolo interpretare, ad esempio, Freddy Mercury, Ian Curtis, Bob Marley e Janis Joplin: il volto è il medesimo, ma il personaggio messo in scena di volta in volta è raccontato accentuando storie e tratti personali, connotando i contesti (per la prima volta a colori) in cui i protagonisti si muovono e anticipando i loro cognomi con la A. di Anton.
Nonostante, inoltre, A. Marley sembri attendere il destino in un luogo esotico, A. Curtis riveli le sue inclinazioni romantiche e decadenti in un campo di grano dal sapore britannico, A. Mercury dia le spalle a una tipica casa americana, in realtà gli scatti sono tutti ambientati nel paese d’origine di Corbjin.
Se la serie degli autoritratti è animata da una sorta di “sindrome di Stoccolma”, gli album precedenti stabiliscono un rapporto convenzionale tra riguardato e riguardante. Qui sono le tinte a tracciare il percorso dell’artista. In
Famouz (1973-89), un rigorosissimo bianco e nero, estremamente contrastato, documenta le punte di diamante della musica dell’epoca. Non sfugge il ritratto di Miles Davis, in cui la pelle segnata del volto e gli occhi sgranati in primo piano disegnano un rapporto intimo e implicito della vita interiore dell’artista.
Nella serie
Star Trak (1990-96), il raccordo è un morbido seppiato che incornicia le storie e i volti di musicisti, artisti, attori, registi, scrittori, non ultimo William Burroughs, ormai giunto a veneranda età, rappresentato con lo sguardo ancora vivo e il corpo sorretto da un bastone, dinanzi a un bersaglio per pistoleri.
Ma la serie più interessante e meno documentaristica è senza dubbio
33 Still Lives (1997-2000). Nella patina di un blu monocromo che ricopre la superficie delle foto, Corbijn congela still cinematografici che sembrano ricordare la serie di
Cindy Sherman degli
Untitled film Stills. La composizione è misurata, la cronaca è resa implicita dai dettagli. Robert De Niro affacciato su un panorama montano sconfinato è il Mike de
Il Cacciatore, Kyle Minogue, con un atto di forzatura narrativa, diventa la protagonista de
Gli Uccelli di
Alfred Hitchcock.