Nello scenario autunnale delle biennali globali in ormai evidente moltiplicazione, puntuale giunge quella lionese. Dopo la spettacolare
L’expérience de la durée di Jérôme Sans e Nicolas Bourriaud, per l’edizione 2007 il direttore artistico Thierry Raspail ha affidato l’organizzazione a Stéphanie Moisdon, parigina classe 1967, e allo svizzero londinese d’adozione Hans Ulrich Obrist. Con l’intento di continuare e chiudere la trilogia dedicata alla temporalità.
Il titolo è ambizioso:
Storia di un decennio che non ha ancora un nome. La missione non consiste solo nel definire le tendenze, ma nel tentare di storicizzare il contemporaneo, di creare un’archeologia dell’attualità. Al fine di mostrare le opere come futuri capitoli di un libro di storia e geografia. Il format scelto è una giostra vorticosa, organizzata con regole precise. Regole di un gioco nel quale intervengono 63 giocatori divisi in due categorie. 49 curatori provenienti da tutto il mondo -con nomi nuovi accanto ad altri di grido- sono stati invitati da Obrist e Moisdon a rispondere alla domanda:
“Qual è l’artista o l’opera d’arte che occupa secondo voi un posto essenziale in questo decennio?”.
I due gironi così formati, mescolati nelle quattro sedi della biennale, non hanno goduto di un ordine spaziale preciso. Così, negli ampi spazi della Sucrière troviamo Massimiliano Gioni che sceglie
Urs Fischer, Hamza Walker che opta per la coppia portoricana
Allora & Calzadilla.
Cao Fei è invitato da Hu Fang e
Shilpa Gupta, con una splendida installazione interattiva, dall’indiana Pooja Sood. E ancora, Daniel Birnbaum invita
Thomas Saraceno ed Eric Troncy
David Hamilton, con le sue fotografie di adoloscenti bucoliche e sensuali, oggi ancor più provocatorie di ieri.
Al Museo d’arte contemporanea progettato da
Renzo Piano troviamo in prima linea
Saâdane Afif che, interrogandosi sul decennio, predilige la scena francese, e dedica un piano intero del museo a Patrice Joly, fondatore e direttore della
Zoo Galerie di Nantes e della rivista 02. Rumori e polemiche al secondo piano del museo -vietato ai minori- per l’opera dell’icona della performance a “sorpresa”,
Tino Seghal. Lo scenografo
Jérôme Bel, col suo spettacolo
The Show must go on, reinventa i codici della danza contemporanea, coinvolge il corpo di ballo dell’Opera di Lione e accompagna il visitatore nelle sale con musica a tema. Michel Houellebecq si lancia nell’adattamento cinematografico del suo romanzo
La possibilità di un’isola e per questa Biennale invita gli artisti che hanno lavorato alla realizzazione del film, tra i quali la star
Rem Koolhaas. Infine,
Pierre Joseph, figura chiave degli anni ‘90, diventa curatore e, a interpretare la sua prospettiva, chiama una decina di giovanissimi artisti francesi.
La Fondazione Bullukian, sede inedita per la Biennale, ospita lo spazio
e-flux video rental e la grande installazione di
Liu Wei, in evidente polemica con i rapidi cambiamenti di Pechino dovuti ai Giochi olimpici. Infine, negli spazi dell’Institut d’Art Contemporain della banlieue lionese, a Villeurbanne, troviamo una quantità infinita di video. Vale la pena di fermarsi nella sala di
Mai-Thu Perret e
Seth Pricet; mentre l’opera di
Claire Fontaine chiede di essere attraversata per arrivare alla sala con le cento fotografie di
Una Szeeman, figlia del compianto Harald.
La scena può sembrare eccessivamente polifonica, un frattale che inghiotte artisti, critici e curatori, ma l’esperienza è affascinante. Le critiche -come per ogni Biennale che si rispetti- non sono mancate. Perché la formula poteva rivelarsi un gioco “pericoloso”, con troppi punti di vista e troppi nomi. Forse un eccessivo pluralismo, che però ha un merito importante e oggettivo: presentare un ventaglio relativamente nuovo di proposte e Paesi. Che non corrispondono necessariamente alle tendenze del mercato.