Una sala con un grande video, immersa in una musica lieve, poltrone azzurre per i visitatori e le grandi vetrate sul traffico di Passeig de Gràcia, da cui non filtra alcun rumore. Questo è il luogo, all’interno del Palau Robert, scelto da Christian Maury – fotoreporter francese trapiantato a Barcellona ormai dal 1988 – per proporre un centinaio delle sue opere fotografiche, alcune fisicamente allineate sulle pareti, altre –L’Eclipse del Alma– proiettate sul grande schermo.
La mostra raccoglie gli scatti a cavallo degli anni ’70 ed ’80 e quelli del periodo più recente, uno sguardo sul mondo raccontato attraverso alcune grandi città europee, Parigi e Barcellona soprattutto, e poi l’Asia.
La dura l’esperienza fotografica in Oriente è ben rappresentata dalla grande cartina geografica dei territori a cavallo di Afghanistan e Pakistan, su cui sono appese le foto dei luoghi e dei percorsi seguiti da Maury. Sotto le foto didascalie, nomi di città, date; ma ben presto sono le decine di facce ad emergere, a catturare lo sguardo, rivelandosi stranamente consuete, familiari, a prescindere dalla latitudine e dalla distanza geografica. Le dita del ragazzo birmano aggrappato a una palizzata di legno -il desiderio di uscire stampato sul volto- oppure gli occhi di una donna, a Parigi, che sbucano da una pesante maschera di ferro. A Calcutta Maury fissa sulla pellicola tre volti, come incisi nella materia, indifferenti l’uno all’altro anche nella prossimità fisica immortalata dalla macchina.
E poi la sequenza delle foto che scorrono lente nel video: gesti sospesi e sguardi perduti. In molti casi l’obiettivo li fissa dal basso, altre volte dall’alto, ad amplificare quel loro inconsapevole protendersi verso chi li osserva, li spia, li accoglie.
La fotografia di Maury insinua – provocatoriamente, inaspettatamente – un senso d’estraneità fra le persone e l’ambiente intorno, spesso abituali contesti urbani. Una sorta di non comunicazione, di sostanziale indifferenza fra l’essere vivente ed il paesaggio circostante. Gli sfondi sembrano remoti e vuoti, i personaggi come straniati. E poi i contrasti: in ogni foto due macroelementi si contrappongono, volti, sagome umane e grandi complessi urbani, corpi e distese naturali.
Il fotografo francese non trascura neanche l’aspetto “artigianale” nel suo lavoro, tutto rigorosamente in bianco e nero. In una vetrina sono così raccolti pezzi di pellicola, fotogrammi tagliati e ammucchiati, diapositive, piccoli telai vuoti.
Resta una ambigua nostalgia, abbandonando la sala. Una sensazione di vicinanza, quasi di comunione con tutti questi volti, lontanissimi e sconosciuti eppure così intimi, percepiti intensamente e poi abbandonati. Con un’inspiegabile, lieve malinconia.
patrizio patriarca
mostra visitata il 28 gennaio 2005
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