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Alfredo Jaar (Santiago, 1956; vive a New York) non andasse tanto per il sottile lo si sapeva; come si sapeva che si occupa di temi sociali e politici di grande rilievo; ma ogni sua mostra continua a essere sorprendente.
La sua estetica “minimale” semplifica concetti complessi, affinché non ci possa essere nulla di equivoco, soltanto fatti chiari. Eppure, allo stesso tempo il linguaggio che l’artista cileno utilizza è decisamente poetico e narra le ingiustizie prodotte dalla nostra società: “
It’s difficult to get the news from poems yet men die miserably every day for lack of what is found there”.
Contro ogni forma di violenza e oppressione, l’artista, architetto e regista Alfredo Jaar propone denunce che, servendosi del linguaggio dell’arte, cercano di raggiungere le persone comuni, di stimolare le sensibilità degli individui a un diverso modo di pensare. Mentre
Santiago Sierra si mostra più aggressivo e immediato, il lavoro di Jaar parla senza dover parlare, per agire a un livello più profondo, opponendo l’immaginario alla banalità:
“I believe in the capacity of cultural institutions to reflect the beauty and culture of a specific society and project it towards the future”.
La rappresentazione dell’ambiente architettonico, la geografia dei luoghi e le inevitabili implicazioni socio-politiche influenzano il pensiero e l’azione dell’artista. L’architettura è un elemento che ritroviamo spesso nei suoi lavori: strutture mobili, piccoli musei collocati nei luoghi più remoti del pianeta sono all’ordine del giorno nell’agenda dell’artista, come nel lavoro per la South London gallery.
The sound of silence (2006) è una struttura in legno, alluminio e neon che letteralmente abbaglia lo spettatore, come il flash di una macchina fotografica che sorprende lo sguardo. Ma, una volta all’interno, il bagliore si trasforma nel buio di una storia fatta di violenze viste e subite: su un grande schermo è raccontata la storia del fotografo sudafricano Kevin Carter, morto suicida dopo esser stato testimone dei massacri dell’apartheid e dello sterminio in Sudan.
Il senso di cupezza è controbilanciato da
Muxima (2005), video che racconta, con bellissime immagini accompagnate da una musica tradizionale, la storia di un Paese, l’Angola, che come molti stati africani vive le conseguenze del proprio passato coloniale. È un viaggio attraverso luoghi e persone, un atto d’amore che l’artista dedica ancora una volta all’Africa.
La mostra si conclude con quattro fotografie che illustrano alcuni frammenti dell’attività dell’artista dal 1984 fino a oggi.