Nella nativa Danimarca,
Per Kirkeby (Copenhagen, 1938) è l’artista più acclamato dal tempo di
Vilhelm Hammershøi. Eppure, per lungo tempo la sua voce non si è udita con chiarezza nel rumore del panorama artistico internazionale. E in un periodo di recessione come questo, la scelta della Tate Modern di dedicare una retrospettiva a un’artista poco noto al grande pubblico è davvero una mossa coraggiosa.
Con 146 opere – dai dipinti su masonite degli anni ‘60 alle tele monumentali degli ultimi anni e alle sculture in bronzo – la personale esplora i momenti chiave della carriera quarantennale dell’artista danese. Una carriera che avrebbe potuto essere ancora più lunga se, prima che all’arte, Kirkeby non si fosse dedicato alla geologia. Fra il 1958 e 1962 ha infatti partecipato a numerose spedizioni in Groenlandia per studiare la formazione delle rocce, disegnando nel pomeriggio.
Abbandonata la geologia nel 1962, Kirkeby s’iscrive alla Eksperimenterende Kunst-skole di Copenhagen, dove nel 1964 inizia a esporre il suo lavoro, prima di unirsi a Fluxus.
La filosofia del gruppo, che lavora servendosi di materiali diversi, ben si adatta allo stile eclettico del danese che – oltre a pittura, disegno, stampa e scultura – ama esprimersi anche attraverso la scrittura e la regia.
In apertura della mostra è
The Murder in Finnerup Barn (1967), in cui Kirkeby esplora il motivo ricorrente della capanna, la forma più primitiva di architettura domestica. Natura e paesaggio, insieme alla grande tradizione neo-romantica scandinava del XIX secolo, sono una continua fonte d’ispirazione per l’artista. Come in quelli di
Caspar David Friedrich, anche nei paesaggi di Kirkeby si avverte il senso della finitezza dell’uomo davanti alla sublime potenza della natura. Ma nei suoi paesaggi il rapporto uomo-natura non è mai drammatico: lungi dall’esser antagonisti, si completano.
L’amore di Kirkeby per il paesaggio nordico pare essere la sola costante di questa mostra. Perché, procedendo di sala in sala, appare evidente che Kirkeby è un personaggio in continua evoluzione. Influenzato dalla Pop Art negli anni ‘60, sostituisce ai motivi americani elementi tratti dai fumetti di
Tin-Tin, la creatura del disegnatore belga
Hergé, che danno vita a elaborati collage popolati da figurette che sembrano muoversi libere su una superficie di colore puro, come in
Blackboard-White (1973).
Dagli anni ‘70, l’influenza dell’amico
Georg Baselitz irrobustisce la pennellata di Kirkeby, donandole quell’aggressivo vigore che mancava al danese. Ma le similitudini si fermano qui. E in un’opera come
Wald-Variation VI (1989) appare evidente che la principale fonte d’ispirazione di Kirkeby continua a essere la geologia.
Le sue opere migliori attendono tuttavia alla fine della mostra. Con i radiosi arancioni, i marroni caldi e i rossi profondi di
Flight into Egypt (1996) e di
The Siege of Constantinople (1995), omaggio astratto a
Eugène Delacroix; o nel soffice cromatismo verde di
Soft Lapping of Waves, Green (2005).
Quelli di Kirkeby sono dipinti sontuosi, di dimensioni imponenti, che avvolgono il pubblico, invitandolo a immergersi nel suo universo. Un universo che da comprendere semplice non è. Ma che premia coi suoi gloriosi colori. E allora ne vale la pena.