Il significato di
moderno, impresso già nel proprio etimo, discende quasi interamente dal termine latino
modernus, composto a sua volta dall’avverbio
modo (traducibile come “poco fa”, “al presente”), che a sua volta deriva da
modus (propriamente “misura”, “limite”, “termine”), sostantivo che lascia intendere una condizione narrativa di imprecisati confini, limitando l’uso del tempo al solo stato presente. Il suffisso
-ernus è una particella interessante all’interno del corpo della parola, in quanto indicante appartenenza; è a sua volta suddivisibile in
hodiernus, direttamente trasposto da
hodie (“oggi”) ed
esternus, da
exter (“ciò che è di fuori”).
Secondo una definizione di
modernità, bisognerebbe tradurre questo lemma come contenitore di un periodo di tempo designato; dovrebbe stabilire un accesso della parola alla durata dei nostri giorni, regolati dall’utilizzo del presente.
Quando si tratta, invece, di filtrare la modernità e ricondurla a un immaginario, non può non venire alla mente il corredo iconico del secolo trascorso, quello che ha appena finito di precedere, e che ancora percorre la nostra contemporaneità.
Secondo le visioni di uno dei più ridondanti interpreti di questo limite temporale,
Fernand Léger (Argentan, 1881 – Gif-sur-Yvette, 1955), non resta che fare della modernità, del XX secolo, un’arma di bellezza, una difesa contro
le joli.
Ed è con questa doverosa dichiarazione d’intenti che alla Fondazione Beyeler inaugura la quarta retrospettiva, quarta in ordine di tempo, allestita sui lavori del pittore francese. La mostra rende un profondo anche se rapido sguardo alla sua figura dell’uomo e del personaggio, conferendo un ritratto di chi, come un pittore dal nome
léger, ha attraversato e ha saputo introiettare diversissimi focolai avanguardisti, esplosi tra il 1912 e il 1955.
I primi lavori della mostra, infatti, sono una roboante ventata di clima cubista parigino. In questi dipinti, l’aria di decadenza festosa della capitale francese precedono il lungo elenco di opere che preparano le pennellate formali del giovane artista affascinato (come in
Contrasto di forme) dagli scenari cittadini, vividi e luccicanti nell’attesa progressista del primo conflitto mondiale.
Più posata e meno spensierata, la mostra cambia tono e la gogliardia sperimentale di Léger subisce un leggero adombramento, ben segnalato dai dipinti a soggetto statico della Fondazione Beyeler, lavori composti negli anni ‘30. Passando attraverso le tele che hanno celebrato l’ascesa di Léger negli anni ‘40 (
Les tubistes) e il ciclo dei cosiddetti
Tuffatori, la mostra prosegue e si conclude con il vero snodo, forse poco indagato, di questa fine retrospettiva.
Nell’ultima sezione, in parallelo alla principale, l’America e la sua ventata di cambiamenti investe la trama tematica dei dipinti di Léger, esposti come una sorta di segnale anticipatore. Un sistema preconizzatore delle più famose correnti artistiche americane che, dalle opere di
Kelly a quelle di
Rauschemberg e
Lichtenstein, per arrivare ai più schivi
Stella e
Johns, hanno trovato un chiaro riflesso compositivo all’interno delle visioni stratificate di Léger e un posto ben riservato all’interno di questa mostra.