È uno strano caso quello di
Peter Doig (Edimburgo, 1959; vive a Trinidad), come se i suoi personaggi -uomini immersi in paesaggi solitari- diventassero improvvisamente celebrità mondane. Solo con un’immagine si riesce a spiegare il mistero di un artista contemporaneo, quasi cinquant’anni portati con aria da ragazzino svagato, poco conosciuto dal grande pubblico eppure capace di vendere un proprio quadro a circa dieci milioni di euro da Sotheby’s (si tratta di
With Canoe, episodio del 2007).
In tale mancanza di connessione tra causa ed effetto ovviamente si sono sprecate e vengono sprecandosi supposizioni d’ogni tipo; chi ha considerato il fatto come un giusto riconoscimento, chi come una manovra commerciale, chi ha recensito un artista sopravvalutato, chi un talento destinato a durare.
Coloro invece che fossero rimasti estranei alla querelle possono farsi un’idea visitando
Peter Doig: le peintre, l’homme et la nature, ospitata dal Museo d’Arte Moderna di Parigi, prima retrospettiva francese dedicata a quest’artista cosmopolita nato in Scozia, cresciuto perlopiù in Canada e attualmente stabilitosi sull’isola di Trinidad. È la mostra una raccolta importante di quasi cento lavori tra dipinti, tutti di grandissimo formato, e disegni; a partire dagli anni ‘80 fino a oggi, secondo un ordine puramente cronologico.
La prima sezione è la più convincente per il suo saper rivelare con fascinosa semplicità i motivi fondamentali dell’artista, ovvero la centralità della natura e il rapporto che l’uomo instaura con essa. Questa fase giovanile è scandita da visioni paesaggistiche a dimensione reale -nel senso che le fronde, il suolo, le pozze d’acqua sono grandi come dal vivo-, tanto forti da creare immedesimazioni improvvise e profonde. Le sensazioni che ne scaturiscono hanno talvolta un sapore romantico, da sublime kantiano, talvolta un sapore fiabesco: può essere la malinconia conseguente a una stasi silenziosa, l’enigma degli spazi enormi e immobili, la riflessione sulle manifestazioni paniche della divinità.
Gli stessi mezzi pittorici collaborano a tale riuscita, con forme che risultano evocatrici più che realistiche, con accostamenti cromatici soggettivi di matrice nabis e fauve, con sovrapposti giochi di luce, con piccoli grumi di colore in superficie a imitazione di gocce piovane o fiocchi di neve. Sembra proprio che lo sforzo primario di Peter Doig, memore di tanta arte precedente nonché influenzato dalla cultura foto/cinematografica, sia di far coincidere visione autoriale e spettatoriale, perché in tale sincronismo sarebbe possibile la rivelazione delle verità recondite.
Fra le tele più belle citiamo
100 years ago, costruito su tre strati differenti di colore e sulla fissità dello sguardo del protagonista;
Milky way, gioco di luce stellare in una magica vegetazione notturna;
Gasthof zur muldentalsperre, visione onirica fra scena teatrale e paesaggio fantastico.
Per quanto riguarda la fase più recente, invece, ambientata negli scenari tropicali di Trinidad, si avverte una sorta di scollamento. Nuove idee, tante, ma poche corrispondenze, come inizi accennati e di seguito lasciati sparire. Non più la visione eterogenea eppure grandiosamente evocatrice della gioventù; al suo posto, colori scuri e un sentore di noia. Che il mercato dell’arte, nel suo essere bizzoso e talvolta eccessivamente lusinghiero, abbia finito per confondere le idee di Peter?