L’atipica retrospettiva di
Philippe Parreno (Oran, 1964; vive a Parigi) s’incentra sulla relazione tra spazio, tempo ed esperienza. C’è un gioco di rimandi tra opere e storia, la formazione di una memoria collettiva attraverso riferimenti ad avvenimenti, ombre e feticci pop(olari).
Nel solco degli happening degli anni ’60, Parreno s’
impossessa della Galleria Sud del Centre Pompidou e – attraverso un dialogo serrato tra virtuale e reale in grado di produrre senso – dello spazio circostante. Parreno sovverte le dinamiche sociali del vicinato attraverso lo sguardo (dello spettatore) e in rapporto all’immagine. È una (de)politicizzazione morbida, che ha il risultato di caricare l’opera d’un significato puramente artistico, e quindi
effettivamente politico. Il rapporto tra dentro e fuori modifica lo sguardo sul reale, i comportamenti nella realtà e la realtà stessa.
Il soggetto (ri)pensa il mondo attraverso la palingenesi dello sguardo, del punto di vista, generata dalla dialettica tra esterno e interno.
L’esposizione come interstizio della sensazione nuova, la decolonizzazione dello spazio sociale preso in ostaggio. Un operazione di matrice situazionista, alla Robin Hood, della stessa famiglia delle azioni e operazioni di
Pierre Huyghe.
Del progetto espositivo – oltre a
Parade? Un livre pour enfants di Parreno, illustrato da
Johan Olander, che ricorda l’estetica di
Ed “Big Daddy” Roth, cara al suo quasi omonimo
Steve Parrino – fanno parte una serie di eventi predisposti specificamente per i bambini. Il medium è l’esposizione, e le relazioni che qui hanno luogo sono parte dell’opera, in cui gli oggetti in sé perdono di valore e partecipano del senso. Non è il medium a essere il messaggio, bensì l’uso che se ne fa.
L’imponente schermo al centro presenta un video, parte di spazio che partecipa del reale, in cui una carrellata – affare di morale, come disse
Godard – spoglia lo spettatore del suo ruolo di sfruttatore. Gli sguardi s’incrociano, lo schermo è un rigeneratore dell’atto del guardare e un movimento continuo. Non un’immagine giusta, giusto un’immagine. La telecamera rallenta, trema, buca l’immagine. C’è un dialogo fra l’istante e lo sviluppo: magia dell’apparizione, magia del cinema parafrasata dai giochi di ombre e luci, che immergono l’osservatore in un limbo tra spettacolo, realtà e ricordi. Al “risveglio”, le tende si alzano e di quello che era resta l’esterno e i rumori provenienti dallo spazio circostante.
L’esposizione si presenta come un campo di possibilità, un’opera aperta, una nebulosa di spazio, immagini e memoria in dialogo. Quelle stesse immagini non occupano lo spazio dell’immaginario, lo abitano, creando vuoti fecondi nell’invenzione del proprio rapporto col mondo. Si tratta di scegliere una posizione all’interno, e all’esterno, di un racconto, una narrazione a cui prendiamo parte e di cui possiamo definire i caratteri.