All’ingresso della mostra, prima di entrare nelle sale dedicate alla pittura della Scuola del Nord, si è accolti da una dichiarazione di sconfitta da parte di
Jan Fabre (Anversa, 1958).
Je me vide de moi-meme (2007), autoritratto dell’artista che schiaccia il naso sanguinante -il sangue è il suo- contro un’opera di
Rogier van der Weyden, ammonisce lo spettatore: Fabre ha accettato la sfida di esporre le sue tra le opere dei grandi maestri ospitati al Louvre, ma da questo confronto uscirà perdente. Ammiccante schernirsi d’un artista che, al contrario, sa di avere i mezzi per affrontare un dialogo con opere d’arte senza tempo, che condividono con le sue affinità di contenuti ed estetica.
Protagonisti della mostra sono morte, vanitas e sacralità. Su tutti, il corpo appare come mezzo di espressione privilegiato, primo attore attraverso il quale l’artista comunica col mondo esterno, entrando in relazione con esso.
A volte è il corpo intero, in altre occasioni ne bastano alcune parti, che vengono isolate per essere sacralizzate attraverso la placcatura in oro zecchino.
L’attenzione resta concentrata sull’artista, che si presenta attraverso una serie di autoritratti: nei panni dell’avo, Jean-Henry; all’età di dodici anni, impegnato a lottare contro un nemico invisibile (il tempo che avanza?); in una bara, nella quale l’artista assume le sembianze, quanto mai coerenti con la sua figura, di un pavone. E, ancora, i tratti del viso dell’artista si delineano su una strana creatura, un verme che si muove generato dalla vita e portatore di fertilità in mezzo alle lapidi distrutte che portano il nome di filosofi e intellettuali del passato.
Il filo conduttore dell’opera di Fabre è un
memento mori che chiama in causa lo spettatore, invitandolo a una fruizione soggettiva delle opere. È proprio lui a essere fissato dagli occhi spalancati delle teste delle civette in
Les Messagers de la mort décapitées (2006), lui a venire attratto per essere giudicato dal monaco senza volto con il saio di ossa che lo guarda dall’alto in
Bruges 3004 – Ange en os (2002).
La religiosità che appartiene alla cultura occidentale di Fabre -quella che lo porta a utilizzare simboli come le croci, che diventano spade nell’installazione
Gravetomb (2000)- si confonde con la sacralità degli scarabei, appartenenti alla cultura egiziana. Un modulo ripetuto nella creazione di forme legate a un’iconografia che confonde in sé il narcisismo più puro dell’artista e il continuo riferimento a temi universali.
In un continuo ammonimento alla vanità della vita e alla sua fragilità, troviamo nel bello, nella sapiente ricerca estetica, nella scelta di materiali preziosi e splendenti e nella resa scenografica delle opere un punto fermo. Capace di rassicurare ma, allo stesso tempo, di rendere ancor più inquietante il dialogo dello spettatore-uomo col passare del tempo.