Non è quello dell’enorme scheletro, la
Calamita Cosmica, che Sgarbi insieme a Italo Tomassoni ha voluto per un mese in piazzetta Reale a Milano, giusto l’aprile scorso. Non è nemmeno quello la cui terrificante risata risuonava nell’atrio dei KunstWerke, durante l’ultima Biennale di Berlino. E così si potrebbe continuare a lungo, poiché il
Gino De Dominicis (Ancona, 1947 – Roma, 1998) che viene proposto a Nizza -e successivamente a Torino, presso la Fondazione Merz, e al P.S.1 di New York- non ha nulla a che fare, almeno a un primo sguardo, con quello eclatante e miticamente concettuale che in genere si conosce.
Torna alla mente un magnifico scatto in bianco e nero, dove De Dominicis pare farsi beffe alle spalle, letteralmente, di
de Chirico. Ecco, il De Dominicis mostrato in Costa Azzurra pare esser passato di là della barricata. È un De Dominicis che definiremmo, senza tema di smentite,
reazionario. Nel senso del termine ribadito recentemente Bruno Arpaia, in un libretto assai coraggioso anche se forse non troppo tempestivo.
Ebbene, il De Dominicis che ci si trova dinanzi agli occhi
reagisce alla temperie culturale nella quale sta vivendo con un atto rivoluzionario. Rivoluziona sé stesso, ed essendo stato rivoluzionario dapprima, diviene reazionario. Logica binaria e manichea che si potrebbe discutere a lungo, ma che pur tuttavia non è facile scansare. De Dominicis torna all’ordine, cessa di esporre ragazzi affetti da trisomia del 21 -come si direbbe adesso per
politically correctness– e di mostrare il nulla.
E dipinge. E
come dipinge. Per questo, a malincuore, si dovrà dire che sono meno interessanti la carta
D’IO o l’
Asta del 1967. Perché è ai due decenni prima della morte ch’è dedicata questa rassegna; è a essi che rivolge la propria attenzione, e mescolare riforma e contro-riforma rischia di confondere i meno scaltri. Prima di giungere al
Naso del 1998, si passerà dunque non senza stupore di fronte e attraverso i primi saggi di intervento bidimensionale. Sin da subito cercando di forzare i limiti canonici, va da sé. Ad esempio andando fuori dai margini (
Senza titolo, 1984), in maniera quasi impercettibile. Oppure chiamando in causa ogni elemento del complesso pittorico, dalla cornice all’ordito della tela, come in quello straordinario
Senza titolo (Viso) privo di datazione e appartenente a Milena Ugolini. E ci si troverà a contare il numero dei tratti, dei segni; la loro varietà essenziale e profondamente significante. E l’insignificanza, quasi, del senso finale. Che è sublimato ed esploso, immobile ormai, a causa di un campo di forze portato a una tensione inaudita.
Un’unica nota deludente: la pubblicazione del catalogo affidata a un numero monografico di “Flash Art International”. Avendo a disposizione testi di notevole levatura e -caso più unico che raro- moltissime immagini delle opere dell’artista, sarebbe stato auspicabile dare alle stampe un volume al quale fosse garantita un’autentica distribuzione.