Una mostra per la quale occorre armarsi di coraggio prima d’entrare, mettere scarpe comode ed esser capaci di bighellonare con intelligenza per una mezza giornata almeno. Dada, organizzata in collaborazione con la National Gallery of Art di Washington e il MoMA di New York, si snoda per 2.200 metri quadrati, 40 piccoli spazi comunicanti, e un totale approssimativo di mille pezzi. Questo enorme accumulo di scritti, opere e installazioni -e perfino ricostruzioni di intere esposizioni-, quest’antologica suddivisa per paesi geografici, tematiche e personalità, è forse la più completa esposizione su Dada mai organizzata in Europa fino ad oggi (dopo la retrospettiva del 1966 sempre al Pompidou e alla Kunsthaus di Zurigo).
Amanti del dialogo dissacrante, del non-senso, dello spiazzamento sistematico e contro qualsiasi convenzione, Tristan Tzara e compagni avrebbero apprezzato e detestato al tempo stesso questo genere di mostra. Avrebbero invitato a restare fuori coloro che intendono seguire un percorso ordinato e prescritto; coloro che, catalogo alla mano, pretendono di non farsi sfuggire nemmeno una delle numerosissime firme autografe esposte nella bacheca della “Galleria Dada” o di riconoscere ogni opera e autore della cellula riservata all’Olanda piuttosto che in quella dedicata alle riviste. Avrebbero invece festosamente invitato ad entrare i nichilisti, i relativisti e chi è pronto a criticare qualsiasi presa di posizione, chi ha voglia di divertirsi e i semplici curiosi. Naturalmente, questo è il luogo adatto anche per gli appassionati degli intrecci inscindibili tra letteratura e arti plastiche, per gli amanti
Una mostra che è, innanzitutto, un susseguirsi di capolavori e pezzi rari (difficilmente fruibili poiché in collezioni private o musei sparpagliati nel mondo). Tra questi sicuramente campeggia la celeberrima Gioconda rifatta di Marcel Duchamp (L.H.O.O.Q., 1919), identica, ma ornata di baffi e pizzetto. Un’opera che rappresenta al meglio l’estetica del gioco propria dell’arte dadaista e la capacità di Duchamp di pensare il linguaggio come una meta-realtà (le lettere pronunciate in inglese producono la parola LOOK, mentre con lo spelling in francese generano più o meno la frase Elle A Chaud Au Cul). E poi, sempre di Duchamp, Il grande Vetro (o La mariée mise a nu par ses célibataires, même), dichiarato definitivamente incompiuto nel 1923, dopo che l’artista si dedicò quasi esclusivamente al gioco degli scacchi. È indubbiamente una delle opere più significative del XX secolo: divisa in due parti, sintetizza l’incomunicabilità del mondo delle idee e di quello quotidiano, dell’Immobile contro l’instabile desiderio terreno, del femminile (la sposa, piccolo essere di piombo con la testa a forma di mezzaluna) opposto al maschile (i nove maschi rappresentati da nove abiti vuoti mossi da una macinatrice).
Il moto meccanico sostituito al moto spirituale (azione e reazione contro il moto dell’anima), il caso, inteso come ciò che accade ma anche, più prosaicamente, come ciò che cade (dal latino occasum, “caduta”), sono due degli elementi chiave che permettono di leggere molte opere dadaiste: dalla ricerca cinematografica di Hans Richter, agli oggetti scultorei e le rayografie di Man Ray; dalla bellissima testa in legno di Raoul Hausman, L’esprit de notre époque o Tête mécanique (1919), ai minuziosi disegni di macchine umane di un Ernst ancora in fase dada o del Picabia degli anni ‘15-‘20.
Non c’è da preoccuparsi troppo, dunque, se attraversando le sale dell’esposizione, ci si sente un po’ insetti ed un po’ vergini: è la sensazione giusta.
emanuela genesio
mostra visitata il 15 novembre 2005
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