Nel 1974, con Global Groove, Nam June Paik (Seoul, 1932) rappresenta un video-manifesto per esprimere la sua personale concezione di televisione globale: l’arte invade gli studi televisivi. Il lavoro approda a una sorta di collage di immagini commerciali, documentazioni di musica e perfomance (Merce Cunningham, John Cage, The Living Theatre, Charlotte Moorman), in cui l’artista coreano sintetizza e modifica le immagini con effetti stupefacenti.
Trent’anni dopo, con Global Groove 2004, Paik ritorna su quell’esperienza, per fonderla con tre dei suoi più celebri videotapes: 9/23/69 Experiment with David Atwood (1969), Suite 212 (1975), Merce by Merce (1978).
Nell’unico grande ambiente del Deutsche Guggenheim sono sistemati 65 schermi su cui, a grandissima velocità, danzano immagini e vortici psichedelici di colori, a un ritmo pop irresistibile. Sui monitor, sistemati in tre blocchi di dimensioni crescenti, dall’ingresso fino al video-wall che copre l’intera parete di fondo, Paik orchestra le danze ipnotiche di Cunningham, le suggestive esibizioni con il TV-Violoncello della Moorman, frammenti di comunicazione televisiva, paesaggi… Non c’è alcuna finalità narrativa, tanto meno un’illustrazione documentaristica di esperienze artistiche contemporanee: l’invito è piuttosto ad entrare in una sorta di cattedrale mediatica dove, a gran velocità, le immagini vengono proposte simultaneamente per essere subito negate, frantumate sugli schermi, come un collage in incessante movimento.
Sulle quattro pareti della sala Paik utilizza uno dei suoi tipici lavori a circuito chiuso (One candle, 2004): la fiamma di una candela che brucia contrappone il suo movimento fluido e naturale al dinamismo sfrenato dell’immagine elettronica.
Fondendo modalità comunicative tipiche dei media con la propria esperienza artistica, maturata a contatto con i protagonisti dell’arte performativa e multimediale, l’artista rielabora immagini e linguaggi della cultura di massa, rendendoci protagonisti di uno zapping visionario tra i canali di una televisione globale, metafora del flusso di coscienza nell’epoca della saturazione mediatica.
In un ambiente che avvolge e sorprende, Paik, con una manipolazione alchemica, trasforma il quotidiano bombardamento mediatico che violenta lo spettatore, in un’esperienza estetica ed emozionale seducente. Non un semplice viaggio a ritroso nel tempo, né soltanto un remix della propria vicenda artistica, piuttosto l’idea che gli artisti divengano interlocutori costanti della tecnologia, interferendo con essa per determinare il futuro della comunicazione.
All’ingresso della mostra sono esposte una serie di tavole digitali in 3D che illustrano il progetto ad opera dell’architetto tedesco Kirsten Schemel, vincitore del concorso per un Museo di Nam June Paik in Corea.
francesca boenzi
Mostra visitata il 15 giugno 2004
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