L’arte ama la notte.. A partire dal buio serale, titanici ratti bianchi percorrono ed esplorano le luminescenti vetrate dei musei di Linz e le plumbee pareti del MuMoK di Vienna. Occhi rossi fluorescenti, andatura sinuosa, coda serpeggiante. Cavie da laboratorio che non escono dal loro recinto, ripetendo infinitamente un percorso a labirinto. È una proiezione colossale creata site specific da
Peter Kogler (Innsbruck, 1959; vive a Vienna), che annuncia una sostanziosa antologica a lui dedicata, dai suoi esordi di fine anni ‘70 a oggi.
Kogler appartiene a quella generazione “di mezzo” di artisti austriaci, come
Wurm,
Graf,
Rockenschaub e
Zobernig, che volta le spalle all’espressionismo di matrice tedesca dei
Neue Wilde, in voga nei primi anni ‘80. Lui, dopo un primitivo inizio da performer, torna al quadro, ma finendo per svuotarlo di contenuti. Dando in effetti risalto alla cornice, rendendo questo elemento di natura marginale un oggetto voluminoso e denso di figure, seppure stilizzate, come sovraccaricato in virtù di una forza centrifuga che annulla la centralità della tela. Questo passaggio esemplare è pienamente evidente in
Ohne Titel (1984, cartone e carboncino, cm 170x240x10).
Dopo esperimenti figurativi e materici, ecco la fuga dell’opera dal suo alveo tradizionale per saldarsi al mondo reale, ma in direzione di una riflessione su analogie e relazioni tra organismi viventi e architetture naturali. Kogler attribuisce il merito della sua iniziale ispirazione a un curioso micro-episodio accadutogli nel 1981: una formica attraversa la pagina di un giornale che in quel momento lui sta filmando con una super 8mm (il film è presente in mostra). Con il suo corpo simmetrico-ornamentale e il suo habitat esistenziale organizzato come un labirinto, la formica diventerà, per l’artista, il simbolo di tutte le concatenazioni organiche e sociologiche che caratterizzano il mondo.
Cominciano a comparire le sue inconfondibili configurazioni a dedalo, in cui il segno artistico dà forma a un’immagine tecnologizzata e concettualizzata tramite procedure computerizzate. O anche a sistemi aggrovigliati di “tubature”, rappresentate in forma digitale, che diventano una metafora degli spazi vitali mediatizzati. Molti di questi motivi, riportati su scala gigante, vanno a ricoprire intere facciate di moderne architetture.
Sviluppi più recenti portano Kogler a riflettere sulla virtualizzazione crescente del nostro spazio vitale. Materia e forma scompaiono dalla sensorialità tattile, mentre prende forma un’essenza figurale impalpabile che, dilatandosi ed espandendosi, si fa spazio virtuale entro cui sottoporre a verifiche l’umana percezione visiva, la vertigine spazio-temporale, la deriva mentale. Ed è, appunto, l’installazione site specific (computer-animazione e suono, 2008), ambientata nell’oscurità di un’immensa sala quadrata del museo, a render conto di tale ricerca.
È una proiezione che trasforma le pareti in uno sfondo su cui s’irradiano a trecentosessanta gradi forme irreali che, con sottile coerenza, da reticolari si distorcono progressivamente per farsi fluide, fisiologiche, interstiziali, siderali. Tutto in una sequenza senza pause né fratture, accompagnata da una traccia sonora, composta da
Franz Pomassl, a scandire il mutamento delle forme.