Take a seat è un piccolo opuscolo giallo che spiega in termini storici e sociologici la portata culturale dell’oggetto sedia: “
La sedia contribuisce alla strutturazione e all’ordine della società ”, recita il testo, “
la sedia ferma il corpo, ci rende docili. Da sempre utilizzata come espressione del potere, la sedia ha continuato a svilupparsi come strumento di espressione di una condizione sociale e di status”. Leggendo, il visitatore è portato a riconsiderare il ruolo di alcuni oggetti o elementi architettonici del vivere quotidiano ed è spinto verso un discorso sullo spazio come frutto di regole e compromessi, come una serie di istruzioni non scritte su come comportarsi in società .
D’altra parte, la conformazione strutturale delle nostre città determina le nostre abitudini e la capacità di muoversi all’interno di un universo di oggetti e segni. Se l’architettura e l’antropologia cercano nuove soluzioni per facilitare e rendere più “libera” la vita quotidiana di milioni di persone,
Hans Schabus (Watschig, 1970; vive a Vienna) mette in crisi ogni sistema, sovverte e ricontestualizza ogni spazio, apportando piccole rivoluzioni che spiazzano il visitatore per la loro sublime semplicitĂ .
Lo spazio è performato dall’artista grazie a un discorso che, senza tralasciare alcune sfumature, riconsidera le potenzialità scultoree dell’architettura e indaga, attraverso installazioni e progetti su carta, le implicazioni sociali che legano le persone all’ambiente urbano. Mentre il soggetto da cui parte è quasi sempre lo spettatore, le soluzioni formali a cui arriva stravolgono la normale percezione dello spazio, creando una nuova sinergia tra artista, visitatore e ambiente. Spesso la sua ricerca è portata a esprimersi in contesti site specific, in cui l’elemento storico e topografico gioca un ruolo determinante nella definizione dell’identità di ogni singolo lavoro.
Al Barbican sembra di stare all’interno di un aereo, con la sola differenza che i posti a sedere si trovano sul muro, sospesi a novanta gradi sulla curva che ruota attorno alla Concert Hall del Barbican Centre,
The Curve appunto. All’ingresso, alcuni disegni-progetti seguono il percorso mentale dell’artista e portano lo spettatore a spasso tra linee rette e calcoli matematici, coordinate spaziali misurabili e possibilità fantastiche. Il risultato è uno spazio soggetto a nuove forze gravitazionali, in cui parti della struttura e della storia del Barbican s’intrecciano alla riflessione dell’artista e alla destabilizzata percezione dello spettatore.
Le sedie, accuratamente ancorate alla parete curva, giocano con il senso dello spazio come campo gravitazionale, come spazio di una nuova modalitĂ percettiva, libera da leggi fisiche.
Next time I’m here, I’ll be there è un invito a riconsiderare la nostra presenza fisica nello spazio e un incitamento a scoprire una dimensione libera e consapevole di quest’ultimo. Qualcuno potrebbe definirla
riappropriazione.