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06
novembre 2008
fino all’11.I.2009 Cold War Modern London, Victoria and Albert Museum
around
Stimolante, terrificante e terribilmente creativo: è il periodo della guerra fredda. Il V&A racconta di come la lotta per la supremazia progressista non si sia combattuta solo con i missili. Ma anche con lavatrici e sedie di plastica...
La caduta del muro di Berlino pareva aver consegnato per sempre l’espressione “guerra fredda” ai libri di storia. Certo dovevano pensarlo i curatori del V&A quando, quattro anni fa, progettaroro Cold War Modern: Design 1945-1970. Storia recente, questa, e mai come ora attuale in maniera inquietante.
L’irrigidimento della rivalità politica fra Stati Uniti e Unione Sovietica e l’esasperarsi dei conflitti materiali e ideologici tra le due superpotenze porta, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, alla divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti, nettamente separati da una frontiera ideologica, definite da Winston Churchill “cortina di ferro”. Nel tentativo di superare il senso di universale ansietà seguito alla fine della guerra, le due superpotenze si lanciarono in una frenetica gara per il raggiungimento di una superiore visione di progresso. Da entrambi i lati della cortina, le immagini diventano armi al servizio della propaganda. Reclutati dalle nuove democrazie, artisti e designer s’impegnano a cercare nuove soluzioni con cui rispondere alle necessità di una società in cui modernità e catastrofe sembrano inscindibili.
Cold War Modern esplora gli anni cruciali della guerra fredda e l’influenza esercitata da politica e ideologia sull’arte e sul design contemporaneo. Organizzata in otto sezioni, che vanno dall’immediato dopoguerra alla conquista dello spazio, il percorso espositivo si snoda con seriosa ironia attraverso trecento oggetti provenienti da tutto il mondo, inclusi i Paesi dell’ex blocco sovietico. Dalla violenta gestualità pittorica del Manifesto Bum (1951) di Enrico Baj a poster e tessuti disegnati da Picasso, associati ai gruppi pacifisti dell’Europa dell’Est, l’arte del periodo è in bilico tra speranza nel futuro e incontrollabile ansietà. Ma proprio la guerra, con la sua tremenda devastazione, fornisce a maestri come Le Corbusier nuove idee per ricostruire un mondo in cui l’archittettura diventa parte della visione di moderna razionalità.
A partire dal ‘45, le due superpotenze investono nella produzione di armi nucleari, lanciano ambiziosi programmi spaziali, appoggiano e patrocinano lo sviluppo di nuove tecnologie da utilizzare come strumenti per rafforzare legami già esistenti di dipendenza economico-politica e crearne di nuovi. Si svelano i lati oscuri del periodo, e si scopre che proprio l’icona dei giovani italiani, la Vespa 125cc (1951) deriva dagli scooter dei paracadutisti americani, prodotta in massa con fondi statunitensi per il mercato italiano al fine di avvicinare l’Italia alla causa capitalista. E che le sedie in fibra di vetro dei fratelli Charles e Ray Eames sono realizzate con materiali precedentemente usati per la produzione di radar e aerei.
Nuovi materiali industriali come la plastica e la fibra di vetro trasformano il design di quegli anni, permettendo una libertà creativa dapprima sconosciuta. Utilizzata tanto in oggetti di design che in mobili – come le sedie di Eero Aarnio usate con grande effetto da Stanley Kubrick nell’epico 2001: Odissea nello spazio (1968) – che dai creatori di moda Paco Rabanne e Pierre Cardin, la plastica è il materiale più adatto per esprimere le forme fluide dell’era spaziale, diventando il simbolo stesso di progresso scientifico e di speranza nel futuro. Ma proprio le innovazioni tecnologiche che portano alla conquista dello spazio cambiano per sempre la relazione dell’uomo con la Terra.
Nell’ultima sala, Oasis No. 7 (1972) degli architetti austriaci Haus-Rucker-Co è una gigantesca sfera di plastica con palme e un’amaca: un mondo gonfiabile che pare destinato a scoppiare in ogni momento. Già negli anni ‘60 la percezione della fragilità del pianeta aveva sollevato domande sugli effetti di un’industrializzazione indiscriminata. Ora sta a noi trovare le risposte.
L’irrigidimento della rivalità politica fra Stati Uniti e Unione Sovietica e l’esasperarsi dei conflitti materiali e ideologici tra le due superpotenze porta, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, alla divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti, nettamente separati da una frontiera ideologica, definite da Winston Churchill “cortina di ferro”. Nel tentativo di superare il senso di universale ansietà seguito alla fine della guerra, le due superpotenze si lanciarono in una frenetica gara per il raggiungimento di una superiore visione di progresso. Da entrambi i lati della cortina, le immagini diventano armi al servizio della propaganda. Reclutati dalle nuove democrazie, artisti e designer s’impegnano a cercare nuove soluzioni con cui rispondere alle necessità di una società in cui modernità e catastrofe sembrano inscindibili.
Cold War Modern esplora gli anni cruciali della guerra fredda e l’influenza esercitata da politica e ideologia sull’arte e sul design contemporaneo. Organizzata in otto sezioni, che vanno dall’immediato dopoguerra alla conquista dello spazio, il percorso espositivo si snoda con seriosa ironia attraverso trecento oggetti provenienti da tutto il mondo, inclusi i Paesi dell’ex blocco sovietico. Dalla violenta gestualità pittorica del Manifesto Bum (1951) di Enrico Baj a poster e tessuti disegnati da Picasso, associati ai gruppi pacifisti dell’Europa dell’Est, l’arte del periodo è in bilico tra speranza nel futuro e incontrollabile ansietà. Ma proprio la guerra, con la sua tremenda devastazione, fornisce a maestri come Le Corbusier nuove idee per ricostruire un mondo in cui l’archittettura diventa parte della visione di moderna razionalità.
A partire dal ‘45, le due superpotenze investono nella produzione di armi nucleari, lanciano ambiziosi programmi spaziali, appoggiano e patrocinano lo sviluppo di nuove tecnologie da utilizzare come strumenti per rafforzare legami già esistenti di dipendenza economico-politica e crearne di nuovi. Si svelano i lati oscuri del periodo, e si scopre che proprio l’icona dei giovani italiani, la Vespa 125cc (1951) deriva dagli scooter dei paracadutisti americani, prodotta in massa con fondi statunitensi per il mercato italiano al fine di avvicinare l’Italia alla causa capitalista. E che le sedie in fibra di vetro dei fratelli Charles e Ray Eames sono realizzate con materiali precedentemente usati per la produzione di radar e aerei.
Nuovi materiali industriali come la plastica e la fibra di vetro trasformano il design di quegli anni, permettendo una libertà creativa dapprima sconosciuta. Utilizzata tanto in oggetti di design che in mobili – come le sedie di Eero Aarnio usate con grande effetto da Stanley Kubrick nell’epico 2001: Odissea nello spazio (1968) – che dai creatori di moda Paco Rabanne e Pierre Cardin, la plastica è il materiale più adatto per esprimere le forme fluide dell’era spaziale, diventando il simbolo stesso di progresso scientifico e di speranza nel futuro. Ma proprio le innovazioni tecnologiche che portano alla conquista dello spazio cambiano per sempre la relazione dell’uomo con la Terra.
Nell’ultima sala, Oasis No. 7 (1972) degli architetti austriaci Haus-Rucker-Co è una gigantesca sfera di plastica con palme e un’amaca: un mondo gonfiabile che pare destinato a scoppiare in ogni momento. Già negli anni ‘60 la percezione della fragilità del pianeta aveva sollevato domande sugli effetti di un’industrializzazione indiscriminata. Ora sta a noi trovare le risposte.
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Cold War Modern: Design 1945-70
a cura di Jane Pavitt and David Crowley
Victoria and Albert Museum
Cromwell Road – SW7 2RL London
Orario: tutti i giorni ore 10-17.45; venerdì ore 10-22
Ingresso: intero £ 9; ridotto £ 7
Catalogo £ 24,99
Info: tel. +44 02079422000; vanda@vam.ac.uk; www.vam.ac.uk
[exibart]