Gambe lunghe e sottili, braccia ossute e danzanti nello spazio come in
Uomo che cammina (1947), simili a fili che si ergono sinuosi, lineari contro la rigidità squadrata, immobile della base. Hanno qualcosa di insostenibilmente fragile. Rimandano alla precarietà ma anche alla sottigliezza, all’acuità dolorosa del sentire; all’esistenza come soggettività segreta, singolare, nascosta dietro l’apparenza visibile delle cose e confrontata incessantemente con la propria dissoluzione. Silhouette nude si proiettano filiformi in riflessi allungati attraverso i muri bianchi del Beaubourg come sullo schermo di un cinema, dove si confondono con le ombre dei corpi dei visitatori. Su quelle pareti, appaiono in controluce smisuratamente grandi, allungate in maniera inverosimile, oppure rimpicciolite fino a divenire minuscole, irrisorie, a un passo dalla loro sparizione.
Accanto a
Uomo che cammina si trova la serie a cavallo del ‘60 delle
Donne. Qui il rilievo è dato in primo luogo al ventre come a un universo in sé. Un cosmo ovale, tondeggiante, portatore di vita. Le gambe divengono tutt’uno con la base, radicate al suolo come il segno di “
un “effimero che resta”, secondo la poetica giacomettiana. Poi emergono i seni, le braccia lungo i fianchi, sinuose; infine, la testa rimpicciolita rispetto al resto della figura.
Scolpire ha sempre a che fare con una visione interiore per
Alberto Giacometti (Stampa 1901 – Coira 1966): è il volto mutevole, instabile, in trasformazione costante degli esseri e delle cose attraverso la percezione che se ne ha di essi; segue la lotta contro il non-finito della materia. Malleabile, l’argilla si plasma, si deforma fra le dita dello scultore.
Porta i segni delle mani che l’hanno incessantemente modellata fino alla decreazione della forma esteriore, il segno di quello che è vivente e dunque intaccato, contaminato, ricreato incessantemente dall’atto dell’esistere.
Giacometti consacra gli ultimi dieci anni della sua vita ai ritratti. Diego e Annette sono i modelli principali. Nella serie delle
Tête d’homme, come quella del 1957, il volto appare graffiato, sfigurato, riuscendo a emergere solo attraverso il controluce di un grigio su grigio, nell’atto stesso della sua cancellazione, nell’essere sfregiato al limite dell’irrapresentabile. Tratti minacciosi di matita o colore ne appesantiscono allo stesso modo il contorno righe e graffiti. Ancora nel
Ritratto di Yanaihara (1956), il volto appare completamente avvolto nell’oscurità, cancellato da una macchia d’indicibile, da un vuoto d’ombra che lo divora: incorniciato in un riquadro interno, poi da un grigio più chiaro che ne chiude la cornice esterna. La figura deve scomparire, come sottoposta all’invasione progressiva del colore, ricoperta da strati su strati, finché non resta che un’oscurità informe; dev’essere violata, fisicamente graffiata da contorni minacciosi che ne marcano il volto sulla tela, restando invisibile tranne che negli occhi. Lì, dove si situa il fulcro vitale, la ferita dello sguardo colta nell’istante della percezione.
Dello stesso periodo sono sculture impressionanti come il
Busto di Diego (1954). La figura deve fare i conti con il vuoto che la corrode da ogni lato sui bordi esterni, perché lo spazio esiste e si manifesta precisamente in questo vuoto presente. S’imprime contro il volto come una forza che non cessa di schiacciarne frontalmente le dimensioni, di corroderne lo spessore, fino a ridurlo a una verticalità affilata, dolorosa, al limite della propria visibilità.