Una voce stridula sospira con affanno sotto un divano: è un volto femminile e impaurito, proiettato su una superficie bombata nell’angolo più oscuro e inaccessibile. Assorbito in una conversazione convulsa e insensata, trasmette un senso di disagio e di viscerale ironia. Impossibile sbagliarsi, si tratta di un’installazione video di
Tony Oursler (New York, 1957) in cui, non diversamente dai suoi personaggi, anche lo spettatore si sente presto intrappolato. È questa l’esperienza che si vive attraverso gli spazi di luce proiettata di
The Cinema Effect. Illusion, Reality, and the Moving Image, una mostra in due volet allo Hirshhorn Museum di Washington DC. In occasione dell’inaugurazione, Oursler ha incontrato il pubblico, ripercorrendo i momenti salienti della sua carriera.
L’artista ha sottolineato il debito giovanile con la pittura e in particolare con
Dalí, emarginato dalla cerchia dei surrealisti più ortodossi così come dagli artisti contemporanei, e le cui convergenze con il cinema sono state al centro di una recente esposizione alla Tate Modern. Dopo un breve periodo di sperimentazione tecnica con teatrini simili al kabuki, la fine degli anni ‘80 segna per Oursler l’anno zero grazie a due intuizioni fulminanti. La prima, che l’esperienza di un film di Hollywood si può riassumere in dieci secondi; la seconda, che per esplorare appieno le possibilità del video bisogna psicologizzare tale medium, dar voce al suo inconscio ottico. Se il video dà accesso a un’altra dimensione, è senza dubbio quella del tempo interno. Ed è così che nascono le sue installazioni. “
It’s Disneyland, but further”, scherza Oursler tra le risate del pubblico.
Tuttavia, i personaggi che popolano i suoi ambienti non raccontano alcuna storia. Parlare di personaggi è pertanto un azzardo, essendo confrontati a facce deformi e senza corpo, se non a smisurati bulbi oculari e a bocche fameliche slegate da ogni conformazione anatomica. Esseri usciti da un brutto sogno o da un film di
Tim Burton riuscito male, e che fanno di Oursler il
Bosch del XX secolo. Il loro vernacolo è disarticolato quanto i loro corpi, intercalato da repentini scoppi di grida, un corrispettivo visivo delle letture sulla personalità multipla con cui Oursler si cimentava all’epoca. Difficile non pensare alle ultime pièce di
Beckett e, in particolare, a
Not I.
La scrittura ricopre del resto un ruolo centrale e non adeguatamente considerato per Oursler, abile a costruire conversazioni che non si tengono in piedi, che non dicono nulla di sensato ma trasmettono vividamente la confusione psicologica delle sue creature. E le loro strambe
conversation pieces, al di là di ogni linearità narrativa, non fanno che aumentare lo spaesamento dello spettatore.
Attraversando vertiginosamente la storia del cinema, Oursler si rifà direttamente al dispositivo dell’immagine proiettata, a quella fantasmagoria che l’impulso del cinema a raccontare storie ha prudentemente contenuto.
Un aspetto che si è progressivamente rinvigorito a discapito di quello
visionario: il montaggio è così diventato un espediente narrativo piuttosto che l’equivalente della nostra produzione inconscia. Lontana da ogni forma di letteratura per immagini, da ogni debito con il teatro, molta video arte si è al contrario concentrata sulla plasticità dell’immagine proiettata, sul suo versante onirico. Oursler considera la storia della tecnologia come la storia dei tentativi dell’uomo di accedere a un al di là, di parlare con i morti.
Non si dà alcuna tecnologia -perlomeno dalla caverna di Platone alla fotografia fino alle videocamere digitali- senza fenomeni di spiritismo, occultismo, mesmerismo, ipnosi e così via. In questo senso, il tubo catodico della televisione è l’appendice tardo moderna di questa storia non ufficiale. L’ultimo capitolo spetta, per ora, alle immagini di Oursler apparse recentemente nel cuore di New York e Londra: paurosi ectoplasmi che si materializzano in una coltre di fumo. La Disneyland di Oursler è aperta solo di notte.
Visualizza commenti
Bosch era meno monocorde