Narra la storiografia le imprese di un uomo
moderno, uscito dalla coltre oscura del passato e finalmente deciso a conquistare i mezzi materiali e intellettuali necessari per sopravvivere alla natura fatale e alla divinità imperscrutabile. Autodeterminando la propria morte, l’umanità avrebbe quindi marciato sempre più velocemente, avanzando metro dopo metro sotto lo sguardo silenzioso del cielo, fino a raggiungere mete lontanissime. Luoghi dove la libertà è un soffio e Dio non può arrivare. Luoghi che si aprono alle voragini infinite del pensiero: la teoria dell’oltreuomo, la messa in discussione di ogni sistema, l’inizio di una nuova età.
Da questo punto esatto inizia
Traces du Sacré, l’evento organizzato dal commissario Jean de Loisy e dal suo entourage per il Centre Pompidou, proposto come esposizione e insieme ripensamento della storiografia artistica dei secoli XX e XXI. Piuttosto che il percorso convenzionale, quello dell’Impressionismo e dell’alternanza più o meno ordinata di avanguardie, una via diversa, avente come elemento significante l’evoluzione del sacro (in ogni sua accezione) nell’arte. Un’ipotesi in effetti sorprendente, già per il suo provenire dalla Francia repubblicana e laica, che si traduce in un allestimento di oltre 350 opere, alcune celebri e altre inedite, per circa 200 artisti divisi in 24 sezioni.
La visita si dispiega come un viaggio tra sentieri assonanti eppure diversi, stanza dopo stanza, angolo dopo angolo, in un continuum di visioni, suggestioni, inviti alla riflessione. Di maggiore rilievo alcune parti fra le altre: l’ambiguità del rapporto bene/male e l’incapacità della loro distinzione con
Him di
Maurizio Cattelan, l’assoluto di gusto platonico nel
Quadrato nero di
Kasimir Malevič, l’ipotesi originaria di
Anish Kapoor nel suo
Enigma e, ancora, la corrente esoterica che ebbe come perno Rudolf Steiner, le sperimentazioni percettive della Beat Generation e
Howl di
Allen Ginsberg, corporalità e sacrificio nelle fustigazioni di
Marina Abramovic e nella ricostruzione eucaristica di
Michel Journiac, la
danza libera di
Mary Wigman.
Si tratta, insomma, di un progetto assai ambizioso, che in patria già ha suscitato opposte reazioni. Probabilmente perché a fronte di un apparato tanto complesso e curato -in cui alla quantità corrisponde esattamente la qualità- la riuscita concettuale non è altrettanto certa. Oltre la più evidente constatazione che il sacro non è un dato sensibile, per cui converrebbe primariamente stabilire su quali basi lo si può individuare e proporre come tale (è esso una questione di forme? di tema? d’intenzioni?), avanza un grande dubbio, che quasi ha il sapore della contraddizione interna.
Ci chiediamo se abbia davvero senso l’aver distinto così nettamente l’arte moderna e contemporanea dal passato remoto. Non dovremmo forse ritenere sacro ogni risultato artistico, qualunque siano i suoi riferimenti estetici e qualunque sia il suo periodo di realizzazione? Non è l’arte, sempre e comunque, un tentativo dell’uomo di trascendere i propri limiti?