Un
sibilo acuto. Uno scoppio. E dalla bocca di un cannone (vero) partono 15 chili
di cera scarlatta che attraversano la sala a 50 chilometri orari, fermandosi
sulle pareti immacolate della West Room. Il risultato è quasi pollockiano. La
cera cola dai muri, colpisce gli stucchi candidi del soffitto. I residui si
raccolgono in un angolo, in un’informe montagna rossastra di materia
appiccicosa.
Una
barriera separa l’arena virtuale in cui – a intervalli di venti minuti –
avviene l’azione, creando uno spazio in cui la folla attende l’esplosione in un
crescendo emotivo. E quando avviene, grida, sobbalza, sospira. Respira.
Chiunque
abbia osservato lo psicodramma in atto di
Shooting into the Corner (2008-09) deve convenire che la reazione
dell’osservatore è un elemento centrale per
Anish Kapoor (Bombay, 1954; vive a Londra).
Stupore
e meraviglia avvolgono il visitatore non appena entra nel piazzale della Royal
Academy dove, a dare il benvenuto, è un’eterea colonna di 76 sfere d’acciaio
che si smaterializza nel cielo. È
Tall Three and the Eye, e basta guardare la sua eleganza per accorgersi che
Kapoor
è un mago, e che le sue
sculture sono puri incantesimi.
Indiano
di nascita e inglese d’adozione, le sue prime opere riflettono l’influenza del
minimalismo americano di
Donald Judd e
Carl Andre, nonché di un
retaggio culturale indiano che Kapoor si porta dietro con orgoglio. E che
traspare nelle fragili forme di
1,000 Names (1979-81), piccole piramidi ricoperte di pigmenti asciutti
(usati nei rituali indù), luminosi colori primari che emergono come fiori
esotici dalle pareti bianchissime di Burlington House.
Ma
Kapoor è celebre anche per i suoi volumi privi di peso e per le sue radiose
superfici metalliche, che dispensano insieme gioia tattile e visiva, nonché
profonda inquietudine. Se l’effetto ottico dell’acciaio lucido di
Turning
the World Upside Down produce un
senso quasi infantile di vertiginosa euforia, nel rettangolo concavo di
Vertigo (2008) la sala si trasforma e l’osservatore è
precipitato in un mondo inquietante, improvvisamente capovolto, sformato,
allungato, popolato da figure mostruose.
Da
sempre interessato alle diatribe metafisiche, Kapoor è affascinato dall’idea
dell’assenza, della forma scultorea che si fa contenitore di un misterioso
vuoto. Un vuoto che mette a dura prova la percezione spaziale.
L’intenso giallo cromo di
Yellow (1999) occupa un’intera parete con i suoi sei metri di
fibra di vetro. Dove inizia l’opera e dove finisce la parete? L’illusione
ottica causata dalla luce che rimbalza sulla superficie concava confonde lo
spazio e la sua percezione, spiazza l’osservatore, lo avvolge in una coperta
monocroma che lo costringe a un incontro ravvicinato col proprio io.
Ma
nulla prepara allo stupore provocato dalla vista del monolite di 40 tonnellate
di cera che avanza in modo quasi impercettibile su rotaie attraverso cinque
sale della Royal Academy.
Svayambh (2007) è una parola sanscrita che significa ‘auto-generato’. E guardando
l’enorme massa scarlatta infilarsi a forza tra le arcate che separano le sale,
lasciando al suo passaggio un residuo di cera amorfo, si capisce il perché. È
l’edificio che deforma la scultura o la scultura che deforma l’edificio? Poco
importa. Questa massa scarlatta definisce lo spazio e produce, ancora una
volta, una forte sensazione fisica. Esattamente ciò che Kapoor vuole.
Presenza
e assenza, solido e intangibile, sporco e immacolato, volgare e divino: l’arte
di Kapoor sembra comprendere tutto e il contrario di tutto. Anche i contrasti
più estremi. Anche (e soprattutto) una buona dose di magia.
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Anish Kapoor è magistrale, immenso.
Uno dei più grandi dall'inizio dei tempi.
Sublime e materia, microcosmo e macrocosmo, ricerca avanguardistica e archetipi, tutto viene espresso in maniera impareggiabile da lui.
Complimenti anche all'autrice dell'ottima recensione, davvero completa, scorrevole e intensa.