La retrospettiva di Jeff Wall (Vancouver, 1946) in corso alla Tate Modern ripercorre il lavoro del fotografo canadese attraverso una cinquantina di opere. Accomunate dalla tecnica del light box e dal grande formato, le immagini sono esposte secondo un criterio grosso modo cronologico, compatibilmente con la creazione di nuclei tematici o analogie formali.
Il tentativo di identificare in questo corpus un percorso o un’unità concettuale si scontra con la presenza di soggetti spesso molto distanti tra loro. Alcuni dei lavori sono accomunati dalla presenza di citazioni di altri testi, pittorici o letterari, di cui vengono evocati personaggi e situazioni oppure ricreate le atmosfere. Wall si lascia così sedurre dalla potenza dei colori e della composizione spaziale di La morte di Sardanapalo di Delacroix (1827), come dall’impostazione formale di Un Bar alle Folies-Bergères di Manet (1881-82), o dalla ricostruzione fotografica di una stampa di Hokusai, Ejiri nella provincia di Suruga (1830-33), un lavoro composto da oltre 100 scatti. Tra le fotografie più riuscite ci sono però le Diagonal composition, in cui la citazione delle geometrie costruttiviste è semplicemente delineata, con effetto ironico, dalle superfici di lavandini incrostati di vernice su cui si è accumulato lo sporco.
Laddove manca il legame con un testo, il meccanismo dominante pare essere la sottrazione di un qualche elemento significante, come per infondere un senso di sospensione o di inquietudine. In Insomnia la difficoltà di dormire non è che un fatto secondario (al contrario di quanto farebbe supporre il titolo): a destare l’attenzione è quell’uomo con gli occhi sbarrati che se ne sta disteso sotto l’esile tavolo di una cucina dall’aria misera.
In mancanza di elementi che supportino una sfida intellettuale alla comprensione, l’immagine, più che apparire ironica, lascia con una strana sensazione di disagio. In The Flooded Grave la presenza, dentro la fossa vuota di un cimitero, di un paesaggio da fondale oceanico affollato di coralli e stelle marine, turba soltanto per la perfezione del lavoro di fotoritocco. Le situazioni immortalate, in certi casi, appaiono tanto semplici e quotidiane da indurre a chiedersi che cosa abbia spinto Wall a sceglierle, non apparendo giustificato un così alto livello di cura formale e a un tale sfoggio di perfezione tecnica.
Poiché gran parte delle fotografie di Wall ha infatti richiesto mesi di lavoro in studio (alcune costituiscono il risultato di una maniacale opera di ricostruzione della scena immaginata), il fatto che si configurino come mere scenografie ossessivamente accurate lascia un poco insoddisfatti. In questo contesto l’utilizzo di box retroilluminati (Wall è stato tra i primi ad adottare questa tecnica alla fine degli anni ’70), pur se preso a prestito dalla pubblicità, pare piuttosto rimandare al cinema: le immagini si presentano come una sorta di casuale fermo immagine di un film che non ci è concesso vedere nella sua interezza.
valentina ballardini
mostra visitata il 15 novembre 2005
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