Una tazza ricoperta di pelo, con tanto di cucchiaino: sintesi di sensazioni tattili e visive, ribaltamento delle consuetudini più scontate. La Fur cup, firmata da Meret Oppenheim nel 1936, fu immediatamente acquistata dal MoMA di New York, divenendo uno dei simboli del Surrealismo. E intrappolando l’immagine dell’artista dentro di sé.
La varia e complessa ricerca che ha seguito l’esordio eclatante è rimasta sconosciuta ai più e la Oppenheim è stata al centro della cronaca soprattutto in virtù della sua vita privata. Spregiudicata nelle relazioni e nei comportamenti, veniva riconosciuta come l’incarnazione dei valori surrealisti, senza che questo contribuisse a creare interesse verso la sua opera.
La retrospettiva di Berna ripercorre, al contrario di quanto usualmente accade, le linee dell’attività artistica di Meret Oppenheim, ponendo in secondo piano gli aspetti biografici. Il museo conserva gli archivi privati dell’artista e una ricchissima collezione di opere, costituendo così il punto di riferimento privilegiato per l’approfondimento della sua produzione e del suo linguaggio.
L’alta qualità del risultato va certamente fatta risalire alla serietà dello studio storico-artistico che sottende, reso possibile dalla disponibilità delle fonti documentarie. I criteri espositivi combinano l’approccio diacronico e quello tematico.
I primi lavori sono presentati in un’unica sala, per testimoniare la fase iniziale, in cui alla ricerca di un’identità linguistica corrispondeva quella di un’identità personale: in un autoritratto del ‘33 l’artista si presenta con tratti poco caratterizzati, restituendo un volto dall’età e dal sesso indeterminabile. La seconda sala è incentrata sulla Fur cup e sui ready made realizzati a Parigi nella seconda metà degli anni Trenta, che dettero il via alla sua notorietà.
Tra le varie opere, spicca My nurse (1936), in cui due scarpe bianche legate all’altezza dei tacchi e presentate su un piatto d’argento mimano l’aspetto di un pollo arrosto. Le sale successive risultano ordinate per temi, su cui la Oppenheim tornò più volte nel corso della sua vita: Streghe, spiriti e metamorei, Maschere e travestimenti, Serpenti, viti e spirali, Sogni e metamorfosi, Stelle e pianeti, Nuvole e nebbie, Genoveva e la sua eco, Giochi ed umorismo. Oppenhei m affronta i soggetti delle sue opere sottintendendo quasi costantemente la memoria delle tesi psicanalitiche di Jung; la professione del padre, psicologo jungiano, e la passione surrealista per le associazioni di idee inconsce rafforzarono certamente la propensione dell’artista ad autoanalizzarsi. Consapevole del significato di simboli come il serpente, che incarna il potere creativo e rappresenta l’unione tra l’individuo e l’universo, o delle stelle e dei pianeti, spunto per voli fantastici, Meret Oppenheim li propone reiteratamente, utilizzando tecniche e forme diverse.
La storia romantica di Genoveva von Brabant, condannata a vagare nei boschi sola e indifesa per aver commesso adulterio, fu il soggetto di numerose tele dal 1939 al 1971. In Das Leiden der Genoveva (1939), la codificazione abbreviata dei corpi e le luci notturne ammantano il volo della fanciulla sul paesaggio di un registro da leggenda. Eppure la sua storia appariva paradigmatica all’artista, simbolo della sofferenza e dell’indifferenza destinate alle donne che trasgrediscono le convenzioni.
silvia bottinelli
mostra visitata il 16 giugno 2006
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