Arles, Francia meridionale, gennaio 1889. Con una rappresentazione di oggetti familiari disposti in modo ordinato sul piano di un tavolo,
Vincent Van Gogh (Groot Zundert, 1853 – Auvers sur Oise, 1890) codifica in forma simbolica il desiderio di rimettersi sul cammino della vita e dell’arte. Sarà arduo, e lui stesso ne è consapevole. La tela è destinata al fratello, per rassicurarlo che non tutto è perduto dopo il suo ricovero in manicomio, successivo a quel gesto famigerato con cui si è reciso il lobo dell’orecchio sinistro in presenza del collega, amico e ospite
Paul Gauguin. Un gesto che interruppe il loro già contrastato rapporto.
Sospeso tra un infelice passato e improbabili speranze, il dipinto offre uno dei tanti momenti emblematici di questa antologica. Centoquaranta opere provenienti da cinquantuno collezioni di tutto il mondo: ottantanove disegni e cinquantuno dipinti. Mancano i pezzi più noti che ci si aspetterebbe di vedere, ma i capolavori ci sono e la selezione è scrupolosa, ineccepibile, esibendo tutta la grammatica dell’universo pittorico dell’artista. Sempre in primo piano l’evoluzione o, meglio, la sperimentazione tecnico-artistica, così come si snoda parallela alle vicissitudini della sua vita, breve ma enormemente prolifica di opere.
Dopo una serie di fallimenti nell’adattarsi al lavoro, nel 1880, a ventisette anni, Van Gogh decide di diventare artista, portandosi addosso ansie, crisi depressive e qualche conoscenza della materia. È un autodidatta, ma non proprio uno sprovveduto; utilizza tonalità cupe e sperimenta effetti che diano spessore drammatico ad atmosfere e soggetti umani. Il disegno intitolato
Dolore (1882), efficacissimo nudo di una prostituta ospitata in casa propria, fa parte di quei suoi già straordinari inizi.
Povertà e Danaro (1882) è un dipinto ad acquerello e inchiostro nero realizzato con tratto veloce, che appare come un’“istantanea” su quelle tematiche sociali a cui aderisce anima e corpo.
Il grosso della rassegna è dato a cominciare dal trasferimento dell’artista a Parigi nel marzo 1886, dove raggiunge Théo, che dirige una piccola galleria a Montmartre. L’atmosfera della metropoli non fa per lui. È nella capitale francese, infatti, che Vincent dipinge la maggior parte dei suoi trentanove autoritratti, uno dei quali – bellissimo, solare e vibrante – è presente in mostra.
A febbraio del 1888 lascia Parigi per Arles, dove ritrova una dimensione rurale in cui si sente a proprio agio. Ne esplora i dintorni, studia le caratteristiche ambientali e naturali: i campi di grano, i cipressi, gli iris… tutto tradotto in un linguaggio innovativo. Ritrae anche alcuni personaggi del luogo: come
Il Postino e
Lo Zuavo esposti a Vienna. In estate, la felice vacanza a Les Saintes-Maries-de-la-Mer. Poi quella tremenda crisi di nervi e la convalescenza.
Ma dopo qualche mese arrivano altre crisi e il ricovero al manicomio di Saint-Rémy, dove gli è permesso di dipingere, ma dove tenterà anche di avvelenarsi con i colori. Nel maggio del ‘90 approda a Auvers, una specie di colonia per artisti, e qui trascorre gli ultimi due mesi della sua vita, dipingendo al ritmo di due quadri al giorno.
Insieme al tipico tratto fluttuante, allo slancio vitale delle linee dinamiche, la mostra dedica una certa attenzione a quelle composizioni che sfociano ancor più nell’astrazione. Il fratello non ama questo modo estremo di dipingere, glielo scrive a chiare lettere. Vincent finge di dargli ragione: “
Sì Théo, sarebbe meglio affrontare la pittura con semplicità, piuttosto che cercare l’astrazione”. Il suo insuccesso come artista ha accentuato i suoi disagi e le crisi, ma lui non recede un solo momento dal suo mondo pittorico. Com’è noto, risolverà le sue sofferenze con un colpo di rivoltella al petto.