Laura Malacart vive in Inghilterra da molti anni. Ha studiato prima lingue, poi arte, laurendosi al Royal College e segnalandosi per la capacità di spostarsi con disinvoltura dal video alla fotografia, dalla performance alla installazione. A Londra, dove attualmente vive, è rappresentata dalla Danielle Arnaud Gallery. È inoltre attivamente impegnata nella redazione della rivista Filmwaves, attenta alla sperimentazione cinematografica e in video. Ha partecipato recentemente (dal 1 Ottobre al 11 Novembre) alla mostra Fair Play, curata da Jananne Al-Ani e Frances Kearney per Danielle Arnaud, ed è stata invitata dallo spazio espositivo Comunicarte di Trieste per una mostra/performance.
Raccontaci brevemente degli anni trascorsi in Inghilterra
Vivo in Inghilterra da… devo contare… circa 14 anni. Visto che ne ho 33, sono qui da quando ne avevo 19. In un certo senso la mia vita ‘adulta’ è iniziata qui, primo lavoro, prima macchina, prima esperienza sessuale… ma nonostante ciò, non posso dire di sentirmi inglese, d’altro canto non mi sento neanche italiana. Anche le mie origini italiane sono miste: sono cresciuta in posti diversi e la mia famiglia proviene da località molto disparate. Sono un’ esule volontaria, un ibrido senza radici. Mi sento Europea e sono costituita dalla somma delle mie esperienze, anche questa è un’identita’ e mi calza molto bene. Quindi, anche se ho vissuto in diverse parti del Regno Unito, abitare a Londra per me è l’ideale perchè quando siedi nella metropolitana ti trovi intorno un giapponese, un polacco, un pakistano, un canadese, un irakeno, uno scozzese, un etiope… (intesi anche al femminile, s’intende). Questo caos culturale e le conseguenze che genera sono l’antitesi del provincialismo: una nozione che rigetto fortemente.
Pensi che esista un elemento centrale attorno al quale la tua ricerca si sviluppa?
Quanto sopra si riflette nell’ambito del mio lavoro: un elemento ricorrente nella mia ricerca è l’abbattimento di definizioni e il confronto paradossale di elementi ‘definiti’ differenti. È un aspetto ricorrente sia che metta in questione la rappresentazione (come rapporto tra oggetto rappresentato e realtà, tra materiali e loro funzioni) sia che discuta la soggettività (in quanto costituita da ruoli attribuiti o aggettivi culturali). Spesso la mia ricerca è influenzata da una sensazione, che viene poi analizzata e presentata nei suoi termini contraddittori, in modo che gli elementi costitutivi rivelino la propria natura non omogenea.
A cosa ti stai dedicando attualmente?
Lavoro con tecniche disparate: testo, video, fotografia, performance; anche se fondamentalmente percepisco tutto il lavoro come scultura, perchè la realtà stessa è duttile.
La settimana scorsa ho fatto una performance in una galleria a Trieste (Comunicarte) ed è stata la prima volta che ho ‘esposto’ in Italia, il che mi ha fatto molto piacere. Il lavoro aveva un aspetto fortemente ludico e culminava con il pubblico invitato a suonare l’inno di Mameli su xilofoni giocattolo. Volevo mettere in questione un simbolo culturale che inconsciamente impone autorità e risveglia sentimenti nazionalistici su cui non si riflette mai troppo. Il contesto del “kindergarden” funziona per me in questo senso: le persone devono riimparare qualcosa di molto familiare, usando il codice dei colori corrispondenti a lettere al posto della lingua tradizionale (musica).
C’e’ qualcosa che ricordi con piacere dell’Italia?
Ogni volta che torno in Italia, apprezzo molte cose. Ci sono dettagli a cui sono legata che fanno parte di me stessa, anche se non mi sento nostalgica. Sono molto consapevole del divario culturale che si è creato tra la mia versione di italianità e quella che trovo per le strade.
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