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Gigi Guadagnucci, l’ultimo maestro

di - 27 Marzo 2011

In origine era il marmo. Gigi Guadagnucci (Castagnetola, 1915) ci riceve a casa sfoggiando un berretto rosso degno di un pittore degli anni d’oro di Montmartre. Vittima delle frane che hanno colpito quest’inverno la zona di Lavacchio, a Massa Carrara, in Toscana, dove è nato 96 anni fa, Gigin è stato costretto a lasciare provvisoriamente la sua casa-atelier per rifugiarsi dai suoi parenti. « Lo vedrai, il mio atelier, ti ci porto », promette, impaziente come un ladro davanti alla grotta di Al Babà. E chissà quanti tesori si nascondono in quel luogo un po’ isolato, tra querce e castagni secolari, dove il dio Pan sembra poter apparire da un momento all’altro. Siamo ai piedi delle sue montagne, le Alpi apuane, da cui proviene il marmo bianco così caro allo scultore.


Perché il marmo, Gigi, lo conosce a memoria. Ancora bambino, si munisce di uno scalpello e familiarizza con lui. Ragazzo, perfeziona la tecnica nell’atelier di qualche artista locale. Siamo negli anni ‘30: il fascismo è al suo apice. Gigi, anarchico, si rifugia a Grenoble, dove suo fratello gestisce un laboratorio. « In francese, sapevo solo contare fino a dieci », ci racconta. Negli anni ‘40, ci sarà l’arruolamento nella Legione straniera: « E’ in questa circostanza che, per rispondere alle lettere di amici e di alcune ragazze, ho imparato il francese », confida questo seduttore instancabile che era, a quanto dice, « nobile come un principe e bello come un dio ». Cosa che non gli ha impedito di prendere la strada del maquis durante la Resistenza, nel sud della Francia. Dopo la Liberazione, Gigi si istalla in un atelier a Parigi, in avenue du Maine, nel quartiere di Montparnasse. È l’epoca del Nouveau Réalisme di Yves Klein, Jean Tinguely e Pierre Restany. Montparnasse è un crogiolo d’energia, d’idee, di creatività. Un passaggio obbligato per tutti gli artisti europei. Gigi, intimo di queste personalità eccezionali, prosegue il suo percorso che non tarda a dare dei frutti. Il critico Pierre Courthion scopre con stupore le sue sculture astratte longilinee, misteriose, vibranti, che fanno di lui lo scultore della trasparenza. Le commissioni per le opere monumentali si succedono: Créteil, Tours, Marseille, Cormeilles-en-Parisis, il Palazzo della Musica e dei Congressi di Strasburgo, il palazzo del Sultano del Brunei, tra i tanti e, per ultimo, l’hotel Hilton International di Tokyo. Seguono svariate mostre, il premio Bourdelle e, nel 1983, il riconoscimento ufficiale: l’allora ministro della cultura francese Jack Lang lo nomina Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere . I suoi Sortilèges, armoniosi e ritmici, i suoi Météorites, taglienti e mobili, sfidano la pesantezza della materia e sembrano volare via verso un’altra galassia. È con loro che questo artista visionario sogna di abbandonare la Terra, nei momenti di tristezza.

« A quelli che mi chiedevano dove ho imparato a scolpire io rispondevo: da nessuna parte! Scolpendo! ». Ed è in un pittoresco grommelot che mescola francese e dialetto massese che l’artista afferma con fierezza di non aver fatto la scuola delle belle arti. « E dire che, per questo, ero convinto, in giovinezza, di non poter accedere all’arte vera ». Messa da parte la posa d’artista, tolto il berretto, dimenticato l’obiettivo, è l’artigiano montanaro ad esprimersi. E senza troppi giri di parole: lo sguardo franco, la voce che risuona come un tuono, esilarante come possono esserlo questi villanzoni toscani infervorati, Gigi inveisce agitando le braccia contro queste istituzioni che, stando a lui, castrano l’immaginazione e in cui i professori « non capiscono niente ». Solo Donatello avrebbe capito l’arte di scolpire: disegnare. « L’ho scoperto per caso, leggendo una rivista svizzera, L’œil, e per me è stata una rivelazione. Da allora non ho mai smesso di disegnare tutto quello che mi passava davanti agli occhi. Tutto! ».


Fiori, cicale, foglie, uccelli saranno sempre per lui oggetto di stupore, nel suo Paradiso terrestre italiano dove è tornato a vivere, dal 1975.

Poi c’è il marmo. Di Carrara. Il migliore, il più prezioso, il celebre statuario privilegiato anche da Michelangelo. Ha il colore della « pelle di una giovane donna » e la presenza di « un gigante da addomesticare ». Ispirato, Gigi parla adesso con una voce sicura, incantatrice. Con la mano, sono le curve di un corpo che accenna per aria, in controluce. Difficile per lui riassumere in poche parole l’arte di scolpire: « Il più bel mestiere del mondo, una felicità enorme ». E poi: « Il marmo, è un re, un dio, Dio in terra; quando attacco un blocco di 25 tonnellate, sono due forze che lottano l’una contro l’altra ». Insomma, per essere un vero scultore, «ci vuole coraggio!», tuona agitando la mano e maledicendo il suo ginocchio oramai fuori uso.

Addomesticare la belva. Togliere la materia di troppo, continuamente. Estrarre, tale Venere dalla sua conchiglia, l’anima femminile della pietra: « Lo statuario di Carrara è caldo, bianco e sanguigno insieme, mentre quello delle nostre montagne [di Massa, ndr] è bianchissimo, freddo, non fa pensare alla pelle di una donna ». La donna. L’eterna magia: « Quando scolpisco dei fiori, o delle figure astratte, longilinee, penso sempre al corpo femminile ». Donne che ha adulato tutta la vita. Amori molteplici, all’immagine di questa fede scolpita che porta al dito: «E’ la fede degli amori interrotti ». Amori carnali, immortalati nelle sue arcaiche Lithophanies d’Eros, come le ha definite Jean Clair, dei bassorilievi a carattere erotico che richiamano i vasi greci o le pitture indiane. Un omaggio quasi religioso, mai volgare, alla creazione dell’essere umano. Molta passione, una generosità ed una sensibilità acute si disegnano dietro quest’uomo fiero e, convinto, con tutto se stesso, che:  «solo i pittori ed i musicisti muoiono, perché noi scultori siamo duri, non muoriamo! ». Obiezioni?

lella tonazzini

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