Ed il MoMa è arrivato. È la Neue Nationalgalerie ad ospitarlo per ben sette mesi, mentre aspetta che gli venga restituita la sua sede storica, attualmente in fase di ristrutturazione. La scelta di questa sede temporanea non è causale. Lo staff dirigenziale del MoMa ha infatti decretato il “museo senza pareti” (un capolavoro architettonico dell’ultimo direttore della Bauhaus, Mies van der Rohe) l’unico spazio europeo in grado non solo di ospitare ma anche di interagire con la prestigiosa collezione, in un certo senso arricchendola.
Il MoMa, insomma, è arrivato con una mostra (quasi) perfetta dietro alla quale si celano sforzi organizzativi e curatoriali inimmaginabili e che sarà probabilmente
Queste otto sequenze storiche partono dai primi anni del XX secolo; corrispondono, con maggiore o minore esattezza, alle decadi del secolo stesso e portano ad una conclusione aperta, ossia alle porte dell’arte contemporanea che, per ammissione degli stessi curatori (l’americano Elderfield, appunto, e la tedesca Angela Schneider), non può più essere gestita per fasi temporali. E l’impronta educativa di questa mostra è quantomai visibile. La disposizione delle opere è chiaramente stata concepita per aiutare a riconoscere immediatamente i tratti dei più famosi movimenti artistici, a raggruppare sotto di essi alcuni nomi, avvicinare due artisti all’interno di uno stesso movimento, addirittura isolare gli “outsiders”.
Tutto bello? Non proprio. Questa mostra ha tre sole sbavature. La prima è grossolana, per chi conosce il lavoro di Donald Judd, Sol LeWitt e Dan Flavin. Le loro opere minimaliste, in contrasto con l’enorme hall d’entrata del museo dove vengono esposte (un enorme cubo di cristallo, metallo e marmo), si perdono e, con loro, anche la
micaela cecchinato
mostra visitata il 18 febbraio 2004
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