C’era un gran fermento, a Parigi, per la riapertura del Musée d’art moderne. Quello, per intenderci, che fa da pendant al Palais de Tokyo e si affaccia sulla Senna, a pochi passi dal Musée Guimet.
La ristrutturazione ha richiesto più di due anni di lavoro, durante i quali il museo è rimasto chiuso al pubblico. Parte della collezione è stata tuttavia decentrata ed esposta in giro per la città, in luoghi spesso curiosi, poco frequentati e soprattutto non deputati all’arte contemporanea: dall’Osservatorio di Port Royal al convento delle Cordeliers. Un esperimento riuscito che ha avuto tra l’altro l’effetto di alimentare le aspettative dei visitatori nei confronti del nuovo Museo.
Organizzate, in occasione del vernissage, una retrospettiva di Pierre Bonnard e la prima volet di una serie di mostre di Pierre Huyghe. Prevedibile la lunga e paziente coda di visitatori di fronte al museo, interessata, più che alle opere, al restyling dello spazio. Tantissimi gli invitati: tra gli addetti i lavori o i semplici appassionati d’arte contemporanea che gravitano attorno a Parigi, non mancava proprio nessuno. E, del resto, si trattava di una delle serate clou del 2006, evento memorabile da segnare in rosso sull’agenda e da non mancare per nessuna ragione.
Un piccolo imprevisto però ha rovinato la festa. Piccolo come l’elefante che si nasconde dietro a un dito. Già, perché il Musée d’art moderne de la ville de Paris è tragicamente e inesorabilmente identico a prima. Possibile che non sia cambiato niente? In effetti, la ragione principale per cui l’edificio a tre piani era stato chiuso così a lungo concerneva una complessa messa a punto dei sistemi di sicurezza e una serie di interventi tecnici. Lavori quindi poco scenografici, difficili da valutare a occhio nudo. Il risultato, però, non cambia. A parte una mano di pittura bianca alle pareti e un’illuminazione leggermente ritoccata, il Museo è tale e quale a due anni fa. E pensare che, con tutto questo tempo a disposizione, si sarebbe potuto distruggerlo e ricostruirlo.
Tuttavia, l’aspetto più grottesco è un altro. Nessuno, in realtà, aveva voglia di esternare la delusione cocente: dopo il tam tam di affiches, mail, sms, voci di corridoio, dopo un’ora di fila al gelo, dopo anni di attese e aspettative, il pubblico ha candidamente fatto finta di nulla, convincendosi di partecipare sul serio ad un grande evento. Se tutti sono d’accordo, la serata è salva.
Così pochi si sono accorti, ad esempio, che raramente Pierre Huyghe aveva concepito una mostra così insignificante: alcune scritte al neon e delle porte giganti che dividevano le sale. Il daltonismo del pubblico era così pronunciato che molti ammiravano le porte come se fossero il frutto della ristrutturazione del museo. In questo caso sì che due anni di lavoro indefesso sarebbero stati giustificati!
Insomma, per dirla con una battuta, “il re è nudo” ma, come nel celebre racconto di Andersen, solo un bambino, col suo sguardo innocente, potrebbe accorgersene. A noi non resta che recitare la commedia fino in fondo, girando per le sale come se niente fosse, pur ricordando a menadito ogni angolo, ogni bacheca, ogni gradino e persino ogni mostra che è stata accolta in passato in questo spazio.
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riccardo venturi
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grande questo pezzo! ogni volta lo rileggo con sempre maggior gusto...