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Un lungo articolo di Jean Clair, uscito su ‘La Repubblica’ di domenica 5 febbraio scorso, con il titolo L’inganno del critico, ha rinnovato in me, e forse in qualcun altro, quella caratteristica sensazione di malessere, di inquinamento, direi, che provocano le mezze verità. Lì, e nei suoi libri più recenti (De immundo, 2004, La crisi dei musei, 2007, L’inverno della cultura, 2011) Clair si dibatte tra le forze opposte e confuse che attraversano le società contemporanee. Ne illumina qualche aspetto, ma finisce poi per replicarle nella loro contraddittorietà. Ne menziono solo tre: 1. deplora i musei, perché avrebbero da sempre sancito la morte delle opere d’arte – della loro funzione sociale e cultuale – consegnandole a un’estetizzazione che le riduce tutte a mèra ‘bellezza’, ma poi costruisce lunghe invettive contro la “bruttezza” dell’arte contemporanea, ripetendo con Dostoevskij che “la bellezza salverà il mondo”. 2. Descrive il declino che avrebbe portato dal culto alla cultura, e dalla cultura alla dispersione ‘culturale’ che domina i nostri giorni, ma poi – spingendosi oltre i timori di Nietzsche sull’avvento di un “autunno della cultura” – racconta il gelo che ci circonda da quando siamo entrati nel suo inverno. 3. Denuncia il disagio che prova quando gli si attribuisce la qualifica di “critico d’arte” – che avrebbe senso solo nei confronti di una cultura malata, che ha raggiunto il momento decisivo, “critico”, appunto, del suo decorso patologico – ma finisce il suo articolo invocando un ritorno della critica alla lezione di Kant, che però smentisce i suoi assunti iniziali. Di Clair si potrebbe dire la stessa cosa che diceva Adorno di Valéry: abbiamo di fronte un uomo che rinuncia alla cultura per troppo amore della cultura. Ma esiste un’alternativa alla cultura che non sia la barbarie? Il grande problema irrisolto è questo: che cosa è la cultura in una società di massa? Ha senso parlare di “cultura di massa”, oppure, come pensava Hannah Arendt, è una contraddizione in termini? Davvero l’industria culturale ci condanna, senza riserve, alla “disneyzzazione” del mondo comune (se ce ne è ancora uno), e permette semmai solo malinconiche delibazioni private (se il privato ha ancora uno spazio)?
Ma veniamo rapidamente ai tre punti elencati sopra. Punto1) Jean Clair confonde almeno tre accezioni di “bellezza”: una che non ha niente a che fare con l’arte, né con l’estetica come “scienza mondana” (Croce), ma appartiene a una tradizione platonica e cristiana di “metafisica del Bello”; un’altra – quella che sembra rimpiangere nel suo articolo – che è solo l’incarnazione di un gusto o di un’epoca storica particolari, quella accezione descrittiva di “bellezza” come espressione di certe armonie e proporzioni e canoni “classicistici”. E una terza – la sola ad avere legittimità estetica – che è un’accezione valutativa. Un solo esempio, noto a tutti: i Disastri della guerra di Goya sono un’opera che può essere giudicata “bella”, ma non certo perché rispetta dei canoni classicistici o perché rimanda a una metafisica del Bello. Non è vero, dunque, che siamo stretti nell’alternativa tra la potenza delle immagini di culto e un estetismo idiosincratico e “sensazionale”. Esiste almeno una terza possibilità: non cadiamo più in ginocchio – per fortuna – di fronte a delle immagini, ma possiamo apprezzarne la “bellezza” in maniera non superficialee sensazionalistica: possiamo mettere in atto un lavoro dell’immaginazione, un lavoro che è guidato e governato dalla perlustrazione dell’opera, e sentire e pensare qualcosa che solo quell’opera ci può offrire.
Punto 2) “Cultura”, come si sa, deriva dal latino ‘colere’, coltivare, prendersi cura, conservare. Il ‘culto’ reso agli dèi non è la sua origine, ma ne è semmai l’estensione oltre la sfera della cura della terra. In ogni modo, “profanare” le immagini di culto non significa necessariamente svilirle, strapparle al mondo per cannibalizzarle come oggetti di consumo, stimoli per un godimento coatto e mortifero: “profanare”, nel diritto romano, significava ‘restituire all’uso comune degli uomini’ (Agamben). Passare dal culto alla cultura, e dalla cultura (unica) al culturale (ciò che è attraversato da una pluralità di culture), non è allora necessariamente un ‘declino’.
Punto 3) L’esercizio della critica non è il sintomo di una cultura malata. Malata, semmai, è quella cultura ossificata che crede di possedere sicuri canoni di giudizio per ogni contingenza, regole autoritarie che “basta applicare” (e che ha permesso di dire: ‘obbedivo soltanto agli ordini’). La critica kantiana ha il suo compimento nell’indagine della Critica della facoltà di giudizio, cioè in una sorta di ‘critica della critica’, un’indagine sulla nostra capacità di riflettere, di criticare, di giudicare, proprio in assenza di regole e canoni disponibili, e tuttavia in maniera non gratuita o capricciosa. L’opposto, dunque, di quella critica rassicurante che Jean Clair sembra immaginare fosse propria di Kant.
Quando si inaugurò la nuova gestione di Palazzo Grassi a Venezia con Pinault, l’allora direttore Jean-Jacques Allaigon promosse una conferenza sull’arte a cui partecipò, fra gli altri, Germano Celant. In quell’occasione io, in qualità di Presidente dell’Associazione Artisti Spa+A di Venezia, da poco nata, rinfacciai a Celant che i critici stavano rovinando il mercato dell’arte, perchè interessati a restringerne l’accesso a pochi artisti. Ovviamente Celant si alzò in piedi per smentirmi. Alla luce di quello che sta succedendo in questi ultimi anni di crisi, posso dire che la mia affermazione profetica era del tutto reale. Basta guardarsi intorno: i nomi di artisti affermati oggi non si vendono neppure per la metà. Da quello che mi risulta molti collezionisti frequentano le gallerie non tanto per comprare quanto per vendere opere di cui non riescono a liberarsi. A proposito della “cultura”, direi che si tratta di un argomento arduo. Nel dopoguerra, per esempio, c’erano dei professori anche analfabeti che insegnavano, finanziati talvolta dal governo, come coltivare piante o allevare conigli: a mio avviso anche questa è cultura. Pertanto risalire al significato della parola come fa l’autore dell’articolo è abbastanza fuorviante. Un filosofo francese, Girard, diceva che la cultura è la capacità di creare e ricreare, ed è stata una svolta nella tematica pedagogica e filosofica del contemporaneo. Per quanto mi riguarda, come artista, io alla creazione artistica darei questo significato di cultura. Non utilizzerei i concetti di Kant per parlare di critica d’arte, dal momento che egli afferma “rispetto alle creature della capacità di immaginazione, che non possono essere spiegate da nessuno con un concetto intellegibile:esse sono, per così dire, monogrammi, singole linee tracciate senza nessuna regola accertabile, che costituiscono più un contorno vago di esperienze diverse che non un’immagine precisa.” Come conciliare questa frase con il mestiere della critica dell’arte? Se si vuol fare della critica d’arte allora si devono fare debite osservazioni, in primo luogo, a chi, come Jean Clair e tanti altri, hanno avuto e hanno la possibilità di sfruttare il credito sui media.
Bello, sintetico e acuto l’articolo di Velotti.
Fai lo stesso errore di Jean Clair anche se ti metti da una parte opposta difendendo una cultura che non c’è, una gestione dei musei che non soddisfa ecc. ecc.
Basta leggere lo stesso Exibart e trovi gli stessi problemi che solleva Jean Clair, sicuramente si possono affrontare da un ottica differente anche se tocca constatare che i critici non aiutano molto.