Gaia Alessi ha studiato architettura a Roma prima di trasferirsi a Londra sei anni fa. A Londra ha frequentato i corsi di Fine Art al Camberwell College, poi al Chelsea College, dove tuttora è impegnata con un Master. Quando la incontro, infatti, Gaia è appena uscita da una di quelle discussioni/lavori di gruppo così frequenti nelle scuole d’arte inglesi, nel corso delle quali si sviscerano letteralmente le ragioni conscie ed inconscie del “fare e produrre arte”.
Nel luogo dove ci incontriamo, la sede del Chelsea College a Bagleys Lane, Gaia e Richard Bradbury hanno realizzato una interessante installazione, chiamata Sleeper. In particolare, i due giovani artisti hanno occupato quella che qui chiamano House, ossia la vecchia abitazione del portiere, oggi per lo più destinata al Degree Show, ai Saatchi Fellows oppure ai progetti temporanei degli internisti. La prossima settimana Gaia sarà al Rooseum, Centre for Contemporary Art di Malmö in Svezia, ad installare il suo lavoro per la mostra itinerante “Nothing”, curata da Graham Gussin ed Ele Carpenter e già ospitata dalla Northern Gallery for Contemporary Art in Sunderland e dal Contemporary Art Centre di Vilnius in Lituania.
Gaia, come mai hai deciso, sei anni fa, di trasferirti a Londra?
Due sono le ragioni principali. Innanzitutto, nel corso dei miei studi di architettura, ho cominciato a sentire la necessità di trovare un terreno di confronto tra la mia pratica come artista e il mio interesse in architettura.
In secondo luogo, dopo aver inutilmente cercato per due anni a Roma di trovare sbocchi e dialoghi in questo senso, mi sono convinta che, per questo genere di ricerche, l’ambiente romano non era dei più facili. Soprattutto a Roma risultava difficile trovare sostegno (e visibilità) per interventi negli spazi pubblici, che sono poi quelli a cui sono interessata. La comunità artistica romana non era forte al punto da consentire un certo tipo di esperimenti.
A Londra invece ho riconosciuto subito la possibilità di condividere interessi, preoccupazioni e sviluppare la mia attività sia nell’ambiente accademico che al di fuori. Ciò che mi ha condotto a trasferirmi a Londra è stato sicuramente il fatto che qui la gente non si stupiva dei miei quesiti, ed ho trovato subito un terreno fertile dove continuare ad investire la mia ricerca.
Pensi di portarti appresso alcuni aspetti particolarmente “italiani” nella tua attività?
La forma mentis è sicuramente italiana. Il mio background (liceo classico, facoltà di architettura …) continuamente ritorna. Ovviamente pratico una continua autocensura, ma è innegabile che esistono referenti fortemente mediterranei. Soprattutto faccio fatica a separare la cultura classica da quello che faccio. Inoltre, la mia indagine spaziale parte dall’esperienza degli spazi pubblici e sociali, che naturalmente cambiano da un luogo geografico ad un altro. Sarà anche per il clima, oltre che per la storia e le strutture sociali, ma i modi di aggregazione a Roma e a Londra sono completamente diversi. Qui non esiste la piazzetta, l’agorà. L’unico spazio conviviale è rappresentato dal pub, ma già l’attenzione si sposta su uno spazio più privato. Lo spazio pubblico dove la gente si incontra, dove avvengono le discussioni e dove la comunità si sviluppa qui viene riassorbito nelle dimensioni spaziali del privato.
Esistono artisti che rappresentano per te un referente?
Sì, ma nel senso del dialogo più che del modello. Sono artisti che rispetto, ma di cui non necessariamente intendo seguire le orme. Una delle cose che volevo sfuggire in Italia è proprio la tradizione. A mio avviso la tradizione è solo fatta di un accumularsi di voci, ognuna delle quali parla per se’.
Dunque, referenti nel senso di affinità più che di emulazione. Mi interessano artisti attenti all’esplorazione dei limiti, laddove il prodotto artistico perde la sua identità ed è difficile da definire “arte”. Faccio un nome: Robert Morris. Mi interessa la ricerca sulla fragilità dello statuto artistico, riassorbito nel contesto del quotidiano.
Puoi parlarmi di questo tuo intervento qui al Chelsea College con Richard Bradbury, dal titolo Sleepers, e della tua partecipazione alla recente mostra itinerante “Nothing”?
Quando abbiamo deciso di lavorare qui al Chelsea College, in questo spazio-abitazione, abbiamo voluto reagire al carattere domestico e privato dello spazio, alla quantità di volume vuoto disponibile e alla locazione delle due camere principali. Lo spazio stesso di per se’ così vuoto richiamava paradossalmente una ostruzione. Abbiamo allora deciso di rendere questo senso di ostruzione visibile: attraverso una serie di muri che ripercorrono il perimetro delle due stanze e di fatto chiudono e rendono inaccessibile l’area centrale delle stanze stesse. Il titolo stesso dell’installazione, Sleepers, ha due ragioni principali. In Germania durante la guerra fredda si chiamavano sleepers quegli individui addestrati per missioni speciali che rimanevano dormienti ed invisibili finchè il momento giusto per la loro missione non arrivava e dopo il quale scomparivano di nuovo nel nulla. Allo stesso modo l’installazione rende inattiva/dormiente una parte dello spazio esistente, si è coscienti del fatto che lo spazio precedentemente presente nella stanza debba essere da qualche altra parte, ma è quasi impossibile determinare dove sia. Quasi seguendo il principio di Archimede attraverso l’inserzione dei muri è stata spostata una massa equivalente di spazio, mentre l’attenzione del visitatore si sposta sullo stato delle cose circostanti.
Inoltre, essendo ostruzioni quasi fuori proporzioni rispetto alle stanze che occupano, questi muri generano una certa sensazione onirica (come quando sei quasi addormentata e ti senti espandere, come in Alice nel Paese delle Meraviglie).
I miei interventi per la mostra itinerante “Nothing” sono basati sullo stesso concetto di “fantasma”: sulla presenza/assenza di elementi di supporto strutturale (pilastri, colonne), pure repliche inserite nello spazio espositivo in maniera del tutto artificiale e in luoghi dove sono difficilmente riconoscibili, a parte alcuni indizi più o meno grossolani (talvolta queste strutture sono “sospese”, dunque non toccano ne’ terra ne’ il soffitto, altrove ostruiscono un sistema di tubature oppure una fonte di luce). Questi interventi, che cambiano da sito a sito e dunque da città a città, giocano in parte sulla conoscenza e familiarità con un determinato spazio, in parte sul nostro modo di percepire, sulle modalità con cui concentriamo l’attenzione su elementi primari e secondari dello spazio.
Quello che mi interessa soprattutto è l’elemento imprevedibile insito nella percezione e nella risposta del pubblico, l’esplorazione del terreno vasto in cui la rappresentazione letterale di un oggetto anche di uso comune (come l’inginocchiatoio ricreato per Transport) si distingue ed insieme comunica con la progressiva riappropriazione dello stesso oggetto per funzioni diverse, in contesti diversi che finiscono per capovolgerne il significato (ancora nel caso di Transport, il passaggio è stato dal trasporto di tipo religioso al trasporto all’interno di una comunità e dalla funzione di aggressione a quella di invito).
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