Condizione indispensabile per vedere e capire le sculture dell’americano David Smith (1906-1965) è che si possa girargli attorno. Per questo gli allestitori hanno deciso di aprire quanto più possibile lo spazio espositivo, abolendo del tutto le pareti divisorie e la scansione delle sale en enfilade. Più che in un museo, si ha l’impressione di entrare in un enorme capannone, senza finestre e con la luce artificiale, quasi si trattasse dell’atelier dell’artista. L’apertura dello spazio è tuttavia strozzata dalla predisposizione –più che dal semplice suggerimento– di un percorso scandito in cinque momenti storici: opere giovanili (1933-45); simbolismo (1945-49); paesaggi (1947-51); Tanktotem (1952-60); cubi (1961-65). A rimetterci sono soprattutto questi ultimi, in acciaio inossidabile –che fanno presentire la stagione minimalista e ricordano persino il titanio usato da Gehry–, concepiti per essere esposti all’aperto. Lì dove i riflessi della luce cangiante li colora in un’incessante metamorfosi.
Questi cinque sensi unici attraversano la sala da un estremo all’altro, con i pannelli a terra, per evitare l’interferenza d’altri elementi verticali che non siano le sculture. Una scelta infelice, nel tentativo di canalizzare e razionalizzare il flusso di visitatori, al punto che risulta difficoltoso passare da una corsia all’altra. Insomma, per abolire le pareti, si sono create nuove barriere, da smaltimento del traffico.
Si tratta di questioni centrali, perché con David Smith la scultura americana cessa di essere considerata come quella cosa contro cui si urta quando si arretra per vedere meglio un quadro, secondo l’indimenticabile definizione di Barnett Newman. Per quanto, a dispetto delle analisi che insistono sull’impossibilità di cogliere una sua opera attraverso la vista frontale, la mostra riserva nondimeno qualche sorpresa. Pensiamo ad esempio all’uso della forma arborea nelle sculture simboliste, che ricordano le piazze –sospese e incongruenti– del Giacometti surrealista; oppure a 24 Greek Y’s (1950), in cui le Y posano come uccelli sui rami. Opere che rifuggono sguardi alla lettera eccentrici, accentuando il piano della superficie; ragnatele e reticoli di metallo in cui l’albero, come lo fu per Mondrian, segna la strada maestra verso l’astrazione.
Difficile rendersi conto di quanto la lezione di Smith fu decisiva per l’arte americana. Nessuno era riuscito a piegare l’acciaio, una materia che resiste ad ogni trattamento manuale, tra le più riluttanti ad assumere configurazioni formali irregolari ed eterogenee. Così il ferro, che si fa duttile, malleabile ed elastico come una corda di chitarra, pronto a curvarsi per raggiungere il piano dell’espressione. Risultati ottenuti attraverso un necessario esercizio della violenza. Un modo per scaricare le proprie pulsioni aggressive, come nei ricorrenti cannoni a forma di fallo, immagini condensate di violenza sessuale e politica. Siamo insomma in piena psicoanalisi: del resto tra le fonti d’inspirazione più decisive di Smith figura Freud. E Rosalind Krauss –come abbiamo imparato a memoria in un testo di riferimento come Passaggi– vede giusto nell’indicare, tra le sue letture più influenti, il Freud di Totem e tabù.
Una nota in chiusura: perché non si è approntata una versione francese del catalogo della mostra tenuta al MoMA? I curatori del Pompidou hanno difatti optato per una via di mezzo, selezionando arbitrariamente alcuni testi. Tra quelli scartati e sostituiti con interventi di studiosi locali, il nostro più grande rammarico va alla soppressione del testo illuminante di David Anfam. Ritoccare il materiale critico per meglio contestualizzare un artista esposto raramente in un Paese straniero è legittimo. Ma, se non fosse per i proibitivi 98 euro, avremmo preferito avere in biblioteca il catalogo del MoMA.
riccardo venturi
mostra visitata il 25 luglio 2006
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