Correva l’anno 2005 e, per calli e campi, art addicted d’ogni risma si scoprivano a canticchiare: “This is so contemporary, contemporary, contemporary”. È pratica diffusa nei media di massa instillare motivetti nell’altrui materia cerebrale, una pratica che Vance Packard considerava parte della “persuasione occulta”. E in merito ne sa a sufficienza Tino Sehgal (Londra, 1976), che agli studi di coreografia ha affiancato quelli di economia politica. Tutti gli elementi del Padiglione tedesco di due anni or sono, riproposti in rassegne internazionali come Manifesta 4 -tenutasi nel 2002 proprio a Francoforte- e l’ultima Biennale berlinese, tornano nel nuovo spazio del Museum für Moderne Kunst. Dove stavolta il refrain è “Welcome to this situation”. Restano le movenze lente dei performer, il disorientamento nel quale è gettato
Sono sufficienti pochi passi, eventualmente di danza, per fare ingresso nell’edificio principale del museo. Dove, aggirandosi per la mostra Das Kapital. Blue Chips & Masterpieces -raccoglie opere della collezione permanente e altre provenienti dalla recente acquisizione della collezione di Rolf Ricke-, ci si scontrerà con alcune altre situazioni. Protagonista è Maurizio Cattelan (Padova, 1960), per una personale che, a rigore, non è tale: non ha uno spazio dedicato, è priva di data d’inizio e di fine. Insomma, l’ennesimo disorientamento, e almeno il secondo per il turista culturale in terra germanica. Muovendosi per la città, fra la torre di Foster e il Römerberg, ci si poteva già imbattere in manifesti sovraccarichi di riferimenti storici: la celeberrima aquila sullo sfondo dei colori tedeschi, Cattelan in cima, MMK fra coda e artigli. Le reminiscenze abbondano, dall’araldica più o meno recente al Deuteronomio, da Dante a Hegel. Nella prima sala, a far da contraltare alla scritta Germany is Connecticut di Jessica Diamond, pare che uno dei cavalli di Kounellis si sia imbizzarrito, sia stato
Auguri per chi volesse proseguire, per coloro i quali avessero ancora quel briciolo di orientamento per spingersi in direzione del Meno, alla Schirn Kunsthalle, dove potranno sorbirsi ore di proiezioni sempre più unheimlich, in compagnia del maestro del grottesco, John Bock (Gribbohm, 1965). E infine concerdersi una pausa, passeggiando sul ponte che il Meno attraversa, magari sostando sull’isolotto che ospita il Portikus, dove fino a inizio luglio dialogavano Paulina Olowska e Bonnie Camplin. Alzando distrattamente lo sguardo, si scorgerà una figura pericolosamente ritta in cima a un albero, mentre invoca o avoca attenzione. Ancora Cattelan, ça va sans dire.
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marco enrico giacomelli
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