Sono sotto gli occhi di tutti i traguardi che la Barcellona di queste ultime decadi si è data e ha (quasi sempre) puntualmente raggiunto. La città è riuscita in tempi record a proporsi credibilmente come una delle più vivaci capitali europee, puntando sulla valorizzazione delle proprie risorse e sulla capacità di attrarre interessi ed investimenti internazionali, pur nella rivendicazione di una forte identità storica catalana. Ha giocato una frenetica scommessa sul nuovo, ridisegnando continuamente la propria geografia urbana con orgogliosa ambizione, senza mai dimenticare la propria vocazione di città di mare, porto aperto alle più diverse possibilità
Già le passate Olimpiadi ’92 avevano offerto l’opportunità di recuperare, con interventi su vasta scala di architettura e urbanistica, ampie zone degradate o semplicemente ‘invecchiate’ rispetto alle esigenze di una metropoli in trasformazione: l’Anella Olimpica sul Montjuic e la zona della Ciutadela sotto l’attenta regia di Oriol Bohigas, il Moll de la Fusta, il lungomare liberato dal diaframma di obsolete strutture portuali, con contributi monumentali di Roy Lichtenstein e Frank Ghery, o ancora i parchi de la Espanya Industrial o de
A monte però di tanta energia volitiva nel cambiamento e soprattutto in considerazione della velocità feroce con cui si consumano tali passaggi, non in pochi si interrogano sul significato che siffatte operazioni più o meno consapevolmente si portano dietro. L’arte che è sempre specchio dei tempi, funziona da pungolo intelligente, ed è indice autentico di orientamenti e atteggiamenti culturali ben precisi. E non si può certo dire che la situazione dell’arte contemporanea a Barcellona non goda di ottima salute. O, se si
Il ‘giro’ in città è molto movimentato, il calendario degli eventi e delle presenze molto fitto: l’attività delle gallerie è buona e conta anche su nomi di primo piano della scena internazionale (Peter Halley, Anthony Caro), i circuiti meno ortodossi offrono sempre gradite sorprese e non mancano le grandi rassegne d’importazione, come nel caso dell’antologica di Lucian Freud al Caixa Forum, o di produzione autoctona, come la monografica su Pidelaserra al MNAC o ancora Léger alla Fondació Miró; si rincorrono quotidianamente nuove mostre, nuove inaugurazioni, nuovi spazi espositivi, con l’imbarazzante spesso dubbio sulla reale qualità dei contenuti proposti. Per non dire dei contenitori. Al tanto discusso MACBA di Richard Meier si credeva di potere
Esistono di contro però realtà altrettanto giovani, ma capaci di aprirsi con coraggio alla città ed ai suoi interlocutori reali: il Mercat de les Flors, per esempio, o il CCCB, un centro di produzione culturale in senso lato, in cui s’intrecciano esperienze e forme di comunicazione anche molto diverse tra loro, in continuità fisica, storica e culturale con il territorio di appartenenza e con occhio sempre attento alle realtà locali più interessanti. Che sono tante e di buon livello.
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Ci fai immaginare quanti più possibili capitoli avvincenti de tu Vivir Barça. Sarà una rubrica fissa?
Cmq, se la meritavano proprio, i dirimpettai del CCCB, una presentazione così poco invitante?
Ora, al di là delle più o meno compiaciute considerazioni degli addetti ai lavori, o presunti tali, su “periferie mondializzate e mondializzazione delle periferie” (¡e sto citando Argullol!), rispondo alla tua ingenerosità e dico la mia sull’argomento MACBA.
Non sempre gli acquisti corrispondono alla linea e alle intenzioni curatoriali di chi un museo lo dirige e lo porta avanti.
Sulle campagne acquisti pesa maggiormente la parola dei vari finanziatori (come ben sai spesso membri delle istituzioni locali, o di quelle istituzioni nate in seno al museo stesso ad hoc, come la Fondazione del MACBA), che, volendo investire, puntano sul grande nome, o su quanto di più simile ci sia in circolazione.
( Ci sono poi anche le donazioni! Che guai a rifiutarle! Sfido chiunque a dire il contrario!)
Di fronte ad una collezione così costituita, pensi che sia del tutto criticabile un comportamento di mediazione, e proporre in mostra, anche, una rilettura così pensata della storia dell’arte contemporanea?
Penso e mi domando, cioè, se la storia dell’arte non sia forse fatta proprio di questi passaggi? Di tanti investimenti fatti con più o meno fiuto, con più o meno denaro, e con più o meno avvedutezza?
Il museo rispecchia “il vento” dell’omologazione, o questa mostra della sua collezione fa emergere e riflettere su questo passaggio culturale (chiamiamo così l’omologazione!), su questa prassi della storia dell’arte e della politica culturale dei nostri giorni?
“L’arte è specchio dei tempi”, e figuriamoci se non lo è la politica (culturale) che vi sta a monte!
Non ti pare un percorso interessante, allora, quello che fa emergere anche questo tratto?
Ma forse sbaglio a vedere tra le intenzioni della mostra lo spunto per questa riflessione.
Cmq, la mostra raccoglieva tra l’altro molte “tracce” di attività e mostre precedenti (Fauna di Fontcuberta, o i disegni e i film di Kentridge, ad esempio).
Ravviso eccessive intenzioni fenomenologiche nella linea (che, a questo punto, definirei anche politica) del curatore, ossia lo stesso direttore Manolo Borja-Villel?