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WESTFALIA FELLINIANA

di - 27 Luglio 2007

È a questa antica cittadina della Westfalia che tocca di chiudere -idealmente, ma anche praticamente, essendo l’ultima a inaugurare in ordine di tempo- lo sfiancante Grand Tour dell’estate 2007. Ed è quindi inevitabile che alla sera, davanti all’ennesimo piatto di crauti, ti venga spontaneo abbozzare un primo bilancio, accettando acriticamente la semplificazione pubblicistica che ha messo in fila Biennale – Documenta e Skulptur Projekte. E la conclusione è che ci si trovi di fronte ad una preoccupante, diffusa ed inesorabile crisi del ruolo curatoriale. Il discorso sarebbe ampio, e partirebbe da ancor più lontano (da certi segnali dell’ultima Biennale di Siviglia targata Enwezor, per fare un esempio). E porterebbe a dire che la potenza comunicativa di ciò che oggi ci aspetta in questi eventi artistici, la grande “massa espressiva” sempre più accresciuta dall’allargamento disciplinale e dall’integrazione ormai compiuta di nuove realtà portatrici di istanze intense quanto spontanee (Cina, India, paesi africani) tenda a respingere ogni ipotesi di “governo”, avendo facile agio sui diversi tentativi di indirizzo e ordinamento. Scelte curatoriali deboli, inadeguate, impalpabili. “Non scelte” più che scelte sbagliate, o discutibili.
Ma poi torni ai tuoi crauti, e pian piano rifletti di quanto in realtà l’evento di Münster sia disomogeneo agli altri. Ti rendi conto che qui da trent’anni le pedine le muove quel Kasper König, direttore del museo Ludwig di Colonia, che lo Skulptur projekte se lo inventò -assieme a Klaus Bussmann- nel ‘77, e che firma anche questa quarta edizione, con Brigitte Franzen e Carina Plath. Ti rendi conto che più che una rassegna temporanea ed effimera, inserita quindi nelle dinamiche e nel “mercato” critico, a Münster c’è un vero e proprio -dichiarato- museo a cielo ape rto, che ogni dieci anni celebra l’ingresso in collezione di nuove opere rigorosamente prestabilite fin nel prezzo e nelle caratteristiche, dibattuti e concordati con i cittadini e la potente università. E in effetti la visita è continuamente punteggiata dall’incontro con le opere delle precedenti edizioni, ormai stabilmente integrate all’ambiente urbano: trentanove lavori, con nomi che vanno da Daniel Buren a Jenny Holzer, Claes Oldenburg, Dan Graham, Donald Judd, Ilya Kabakov, Rachel Whiteread, Richard Serra. Un progetto originato, nel 1977, da un curioso fatto, il rifiuto da parte del consiglio comunale di Münster di accettare una scultura donata dall’americano George Rickey -che oggi peraltro fa bella mostra di se in un giardino pubblico-, in seguito al quale Bussmann e König invitarono nove artisti a realizzare progetti destinati a vie e parchi della città, con l’intento di indagare il rapporto tra arte e spazi pubblici.
Vocazione che rimane anche in questa edizione 2007, che -chiariscono i curatori in catalogo- “reindagherà ciò che la scuItura contemporanea può essere oggi, come si articola a livello mediale, sociale e artistico, e la sua influenza sulla nostra comprensione dello spazio pubblico”. Trantaquattro artisti che distendono i loro interventi veramente su tutto il tessuto urbano, presentando una fotografia della scuItura contemporanea che sposa appieno l’idea di “campo allargato” introdotta da Rosalind Krauss, scultura che “si nutre della convinzione che ciò che era non basta più, perchè poggiava su un mito idealista. Cercando di scoprire ciò che è, o almeno cosa può essere, la scultura si è servita del teatro e in particolare del suo rapporto con il contesto dello spettatore come di uno strumento per distruggere, indagare ericostruire”. Bando quindi all’idea accademica di scultura come materia che si dispone nello spazio, a farla da padroni sono video, installazioni, happenings, interventi che a volte aggiornano un certo spirito provocatorio e contestatario di matrice surrealista. Che in certi casi risultano irrimediabilmente datati. Come nel caso di Michael Asher, che fin dalla prima edizione del 1977 porta a Münster una roulotte, che ogni lunedì -a mostra chiusa- parcheggia in un luogo diverso. Un taglio che in qualche caso introduce dei paradossi, come nel caso di Drama Queens di Elmgreen & Dragset, che allestiscono un’animazione teatrale dove sculture storiche -per definizione statiche- prendono vita protagoniste di un dinamico gioco delle parti. Peccato che la “mise en scene” originale avvenga solo il giorno dell’inaugurazione, ed ai visitatori ritardatari non venga propinato che un irritante ed inservibile video. Non mancano sussulti, come con Mark Wallinger, che segna gli ideali confini della città tracciando un cerchio con un filo di nylon lungo cinque chilometri, posto a cinque metri d’altezza. Un’evocazione di sensazioni di isolamento, di ghetto, che probabilmente rimanda alla storia della città di Münster, isolata e successivamente occupata nel cinquecento nella repressione dello “scisma” anabattista. Forte anche l’impatto del Petting Zoo di Mike Kelley, che ricostruisce una fattoria -con tanto di animali domestici- nel cortile interno di un periferico gruppo di palazzi, rievocando l’episodio della Genesi in cui la moglie di Lot si trasforma in una statua di sale. E si torna ad una parvenza di scultura “tradizionale” nel lavoro di Silke Wagner, un ritratto che introduce la drammatica storia di Paul Wulf, un cittadino di Münster sterilizzato dai nazisti perché dichiarato mentalmente instabile, protagonista di una lunga battaglia politica e giuridica iniziata dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, testimoniata da riproduzioni di articoli di giornale e dalla documentazione con cui Wulf sosteneva le sue ragioni. E ancora il falso scavo archeologico approntato da Guillaume Bijl, ed altri film, video, interventi sonori, spesso opere ai confini con l’architettura…
“Un esercizio nel caos organizzato, come un vecchio film di Fellini”, come ha scritto Jerry Saltz sul New York Magazine.

massimo mattioli
mostra visitata il 26 giugno 2007


Skulptur Projekte – Münster, Germania, sedi varie
17.06.2007 – 30.09.2007
www.skulptur-projekte.de


[exibart]

Visualizza commenti

  • Forse Jerry Saltz dovrebbe occuparsi di pittura e meno di comparazioni cinematografiche. Chiamare la poetica felliniana, un caos organizzato aggiungendo il termine 'vecchio film', è una cosa indecente. Ma si sa, gli italiani non contano poi molto e di converso anche le imprecisioni sui nostri miti trovano giustificazione, soprattutto negli USA, attraverso esemplificazioni terminologiche raffazzonate.

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