Il racconto biblico della fascinosa Giuditta che, implorando e ottenendo l’aiuto del Signore, mozza il capo al generale assiro Oloferne mentre questi, ammaliato dalla bellezza della donna ed ebbro di libagioni, giaceva inerme nella sua tenda dopo un sontuoso banchetto, ha fornito nel corso dei secoli numerose suggestioni alla letteratura e all’arte, fino ai nostri giorni. La femme fatale che tuttora fa capolino nelle produzioni televisive e cinematografiche reca l’impronta mnestica di questo cruento exemplum veterotestamentario. E come non ricordare, in pittura, le più addomesticate declinazioni novecentesche di Gustav Klimt e di Franz Von Stuck? Si deve all’umanista e occultista Cornelio Agrippa l’osservazione inattuale che, nelle sacre scritture, gli episodi attinenti alla crudeltà femminile portano spesso lo stigma dell’iniquità benedetta. La mostra inaugurata a fine novembre a Palazzo Barberini, ideata e curata da Maria Cristina Terzaghi, esplora gli esiti della ricezione di questa storia esemplare negli anni dominati dall’irruenza del Caravaggio e dagli artisti che a lui si ispirarono, in un percorso di ventinove dipinti, a partire da alcuni celebri precursori cinquecenteschi come Tintoretto e Lavinia Fontana.
Ci portiamo subito nel cuore della mostra a goderci il confronto tra la Giuditta caravaggesca appartenuta gelosamente al banchiere collezionista Ottavio Costa e ritrovata nel 1951 grazie all’intuito formidabile di Roberto Longhi, e la successiva Giuditta di Artemisia Gentileschi dipinta, se la cronologia in nostro possesso è esatta, circa un anno dopo il drammatico episodio dello stupro di cui la pittrice fu vittima ad opera del pittore Tassi, amico e sodale di suo padre, ed a cui spetta, a detta della curatrice «La palma d’oro dell’interpretazione del capolavoro caravaggesco».
È verosimile che gli artisti dell’epoca avessero allenato l’occhio presenziando con diligenza alle esecuzioni capitali, frequentissime nella Roma papalina, allo scopo di studiare i gesti e le reazioni del corpo umano nell’attimo della morte, come prescritto da Lomazzo nel suo stimato trattato didascalico, e suggerito ancor prima dal sommo Leonardo. Nel capolavoro di Caravaggio questa sapienza anatomofisiologica acquisita sul campo rende immortale il dialogo stridente tra il volto raccapricciato di Oloferne, fermato nell’atto di esalare brutalmente la vita, e l’atteggiamento distaccato della donna, attenta a compiere con scrupolo la volontà divina davanti allo sguardo aggrottato della vecchia fantesca. Ritroviamo più o meno questa distanza metafisica tra i due protagonisti anche negli altri dipinti in mostra: soltanto Giuditta-Artemisia sembra malcelare nello sguardo partecipe la memoria dell’onta subita.
Non possiamo lasciare Palazzo Barberini senza recarci a far visita al Sant’Onofrio di Giovanni Battista Caracciolo detto Battistello, un pittore napoletano seguace del Caravaggio. Il dipinto a olio, che patisce una cromia alterata a causa del generale ingiallimento delle vernici, verrà restaurato nel nuovo anno grazie al sostegno economico della Fondazione Civita in partnership con la Tenuta Caparzo di Montalcino. Nel fondale atro, una luce metafisica rivela la stanca figura dell’asceta: ci lasciamo compenetrare dalla visione in cui ci sembra di cogliere, nel contrasto luministico, l’oggettivazione estetica di un tumulto interiore.
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