Il successo, anche di mercato, dei grandi protagonisti e anche delle sperimentazioni dell’arte contemporanea, non cancella il favore di cui ancora gode la pittura classica, in cui Raffaello tiene banco. E c’è vivo interesse per le attuali indagini diagnostiche, sulle opere sue e dei suoi seguaci, effettuate, con la partecipazione e il coordinamento del CNR e i più avanzati mezzi tecnici, dal Museo e Real Bosco di Capodimonte, dai LNS di Catania, dall’Università Luigi Vanvitelli e dal Laboratoire d’Archeologie Moléculaire et Structurale di Parigi. Si attendono grosse novità dai risultati di queste indagini, che saranno presentati, la prossima primavera, nel convegno internazionale che avrà luogo nel Museo e nel Real Bosco di Capodimonte, dove, da tempo, è in corso, con la sollecitazione del direttore Sylvain Bellenger, l’uso di tecniche avanzatissime anche nella digitalizzazione delle opere qui custodite, a cura di Carmine Romano.
Viceversa è in calo la teoria, un tempo molto diffusa, di definire “manieristi” la maggior parte degli artisti del Cinquecento, non solo i semplici imitatori della “maniera” dei tre intoccabili, Leonardo (1454-1520), Raffaello (1483-1519) e Michelangelo (1475-1564). Nel Cinquecento i pittori imitarono soprattutto Raffaello, il quale veniva elogiato dal Vasari, in quanto raggiungerebbe, nella sua pittura, «L’equilibrio tra l’imitazione della natura e l’artificio…volto a realizzare figure svelte e graziose che non siano goffe come le naturali».
Ma sono stati considerati “manieristi”, nell’accezione raffaellesca, anche artisti dalla indiscutibile personalità, come Correggio e Parmigianino. Ed ecco che, ora, la figura di Raffaello quale loro maestro viene a essere ridimensionata. Già nel 1580, Annibale Carracci scriveva da Parma al cugino Ludovico, a proposito degli affreschi del Correggio nella cupola del Duomo, «Che né Tibaldo né Niccolino né, sto per dire, lo stesso Raffaello, vi hanno a che fare». E David Ekserdjian, professore di Storia dell’Arte alla Leicester University, nel documentario di recente visto su Rai 5, “Parmigianino: il prodigio e la sconfitta”, di Maria Agostinelli e Silvia De Felice, ha affermato che non ha mai detto, scrivendo del Parmigianino, del quale è uno dei massimi esperti (c’è anche un suo libro, in inglese, già del 2006, su questo pittore), che Parmigianino sia stato un manierista raffaellesco, né ha mai citato la parola “Manierismo”.
Che, infatti, ci sembra essere uno di quei termini adottati dalla critica per mortificare la personalità dei più meritevoli e inscatolare l’arte in definizioni approssimative, secondo quella tendenza a unificare i fenomeni, che testimonia la generale generica incapacità di osservare ed evidenziare le diversità di ciascuno, artista o persona che sia, immettendolo nell’informe uniformità della massa.
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